Quanto spoglie sarebbero le pareti dei nostri musei se private delle opere d’arte che illustrano, interpretano o fanno riferimento ai temi della Bibbia. Quanto silenzio ci sarebbe nella nostra musica occidentale, dai canti gregoriani a Bach, da Handel a Stravinsky, a Britten, se ne espungessimo i contesti, le trasposizioni e i motivi biblici. Lo stesso può dirsi per la letteratura occidentale: poesia, teatro e narrativa sarebbero irriconoscibili se eliminassimo la presenza in essi della Bibbia. Non c’è, d’altra parte, un modo categorico di delimitare il campo. Si va dall’immensa mole delle parafrasi bibliche alla più tangenziale e velata delle allusioni. Sono compresi tutti i modi dell’intertestualità, dell’incorporazione nelle righe e tra le righe. Come si può circoscrivere un numero così grande di connessioni, che vanno dalle traduzioni o dalle parafrasi dei testi biblici nelle rappresentazioni dei misteri medievali all’obliquità del biblico Assalonne, Assalonne di William Faulkner?
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E come rendere conto in modo univoco della presenza di Acab e Giona in Moby Dick, del reimpiego dei personaggi e delle lettere della Bibbia nella Divina Commedia di Dante e della ampia riscrittura del mondo dei Patriarchi nella tetralogia che Thomas Mann ha dedicato a Giuseppe? E se la figura secondaria della moglie di Lot appare già nella poesia inglese medievale, ecco che continua a comparire in Blake, in Joyce e al centro della poesia di D.H. Lawrence intitolata She Looks Back. Le figure di Mosè e di Sansone giganteggiano nel Romanticismo francese con Victor Hugo e Alfred de Vigny. Non ci sarebbe stato Proust senza Sodoma e Gomorra. Né Kafka senza le Tavole della Legge. O Racine senza Esther e Athalie. Echi biblici, così come giochi di citazioni nascoste e parodie, sono indispensabili al Faust di Goethe, e lo stesso vale per le arcane riflessioni sull’Eden e sulla Caduta nella Coppa d’oro di Henry James (il titolo deriva dall’Ecclesiaste), nonché le variazioni sardoniche o desolate di quell’intrigo che troviamo nell’opera di Beckett Aspettando Godot. Inutile continuare questo elenco.
Per la prima volta da tempo immemore, la sera della vigilia nelle nostre chiese non riecheggeranno le letture della veglia pasquale, che procedendo attraverso Genesi, Esodo, Isaia, Ezechiele, giungono a San Paolo e al racconto della scoperta del sepolcro vuoto. Non sono del tutto convinto che a questo avvenimento venga assegnato qualche valore simbolico ed è molto probabile che non lascerà alcuna traccia nella memoria collettiva; anche perché, passati preoccupazione e spavento, il flusso mediatico dell’eterno presente cancellerà le riflessioni epocali indotte da questi giorni di quarantena. Quanti avvenimenti che ora fatichiamo persino a ricordare con precisione – in quanti hanno ancora in mente cosa stavano facendo l’11 settembre? – sono stati classificati negli ultimi quaranta’anni come storici, epocali, punti di svolta dopo i quali niente sarà più come prima. Eppure quel racconto è così radicato negli strati più profondi della nostra cultura, che trascende la pura dimensione di fede. O forse la dimensione di fede è tale da aver impregnato così profondamente la nostra cultura.
Una guida sicura e autorevole per addentrarsi in questo affascinante universo è la lettura del breve saggio di George Steiner tradotto nel 2012 per i tipi di Vita e Pensiero con il titolo Il libro dei libri, da cui proviene la lunga citazione iniziale. Steiner, morto lo scorso 3 febbraio, è stato uno dei più prestigiosi intellettuali europei, anche se la tormentata storia del nostro continente lo aveva costretto a diventare cittadino americano nel 1944. I suoi genitori viennesi – che già avevano preferito trasferirsi in Francia, dove George nacque nel 1929, per mettersi al riparo dal crescente antisemitismo che, ben prima dell’Anschluss, impregnava la società austriaca – si videro, infatti, costretti a fuggire negli Stati Uniti nel 1940. Il testo nasce come introduzione all’edizione della King James Version dell’Antico Testamento pubblicata nel 1996 nella storica collana della Everyman’s Library, per essere poi incluso con il significativo titolo “A Preface to the Hebrew Bible” nella raccolta No Passion Spent, uscita nella stesso anno per i tipi di Faber and Faber. Steiner, infatti, elabora la sua analisi nell’orizzonte della lingua e della cultura ebraica, mettendo in evidenza i mutamenti di significato introdotti dall’interpretazione della ricezione cristiana, che ha fatto della Bibbia degli ebrei il prologo della nascita e della predicazione di Cristo, narrata nei vangeli e negli altri testi del Nuovo Testamento. Tale prospettiva si è così profondamente radicata nell’occidente cristiano, che nelle lingue europee anche le traduzioni più scrupolose e fedeli ne sono condizionate, non riuscendo ad evitare nella scelta dei vocaboli e dei significati quel tipo di lettura finalistica. Nello stesso tempo, però, Steiner mette in evidenza sia l’influenza della lettura cristiana sulla formazione dello stesso canone ebraico, sia l’importanza cruciale che tale lettura ha avuto nel posizionare i testi biblici al centro della cultura occidentale. Un intrico affascinante e fecondo se letto con mente aperta e curiosa, tragico e dalle conseguenze insopportabili, come più volte nel suo testo Steiner ricorda, nei momenti in cui la storia europea ha imboccato la sciagurata strada della chiusura e dei particolarismi. Si può dire che in questi passaggi affiori il tema centrale degli studi di Steiner sulla cultura europea, che ruotano intorno a questa ambivalenza, da cui pare proprio non ci si riesca a emancipare.
Le pagine di Steiner esplorano in tutta la loro profondità la presenza dei racconti biblici nella nostra cultura, passando in rassegna il contenuto di ogni libro. Nell’arte e nella letteratura, come abbiamo visto. Nella formazione della moderna lingua inglese, la lingua erede del latino nel mettere in comunicazione i popoli, dedicando un rilievo particolare al ruolo che la redazione della King James Version, l’introduzione alla cui nuova edizione origina lo scritto di Steiner, ha avuto, insieme alle opere di William Shakespeare, nel plasmarla. La prima edizione venne pubblicata nel 1611 su iniziativa di Giacomo I Stuart, che per la sua compilazione radunò i migliori specialisti del tempo, anche se lo splendore della sua lingua è dovuto all’utilizzo delle traduzioni di William Tyndale. E nella formulazione di veri propri archetipi nella concezione della storia e del pensiero politico, che ruotano intorno al racconto dell’Esodo, matrice di tutte le idee di riscatto e di emancipazione che si sono succedute nel tempo. «Quando conosce la speranza, la nostra storia si ritrova ancora una volta in quell’ardua traversata verso Canaan». Treversata senza poter concepire la quale saremmo tutti più poveri e indifesi.
George Steiner, Il libro dei libri. Un’introduzione alla Bibbia ebraica