Le videochiamate ispirate da E.T. che hanno salvato tanti nonni

Le videochiamate ispirate da E.T. che hanno salvato tanti nonni. Ricoverati in un letto d’ospedale, improvvisamente e per giorni, non hanno più avuto contatti con i familiari e dall’altra parte, chi era a casa non poteva andarli a trovare. È il dramma che hanno vissuto le persone di 70-80 anni, ricoverate per prime nel primo reparto Covid del Maggiore di Novara. Ma grazie al progetto “Pronto, telefono casa” «siamo riusciti a colmare questa distanza abissale, attraverso i tablet messi a disposizione dal Consorzio scuola comunità impresa di Novara, che ci ha proprio fatto un grande regalo e appoggiandoci alla rete Wi-fi del Comune di Novara». Lo racconta Giusy Pace, coordinatrice infermieristica della direzione sanitaria dell’ospedale Maggiore, che ha ideato il progetto e realizzato materialmente le videochiamate che hanno ricreato il ponte spezzato tra ricoverati e familiari.

 

«E’ nato tutto per caso – spiega – A fine marzo Silvia Rampi della direzione sanitaria mi ha detto che il Consorzio Csci, avendo momentaneamente sospeso alcune attività progettuali che lo vedevano coinvolto, aveva pensato di prestare all’ospedale 4 dei tablet in dotazione al supporto scolastico, tramite interessamento della responsabile Barbara Tosi. Pensando a come utilizzarli ho avuto una sorta di illuminazione: ho pensato a E.T. e alla frase “telefono casa”, nel giro di 24 ore abbiamo fatto partire il progetto delle videochiamate per i ricoverati e devo dire che è stata una grande emozione per tutti. Me compresa, non solo perché conoscevo buona parte delle persone ricoverate», ammette.

Com’è andata?
«All’inizio non sentivano, perché molti erano sotto la campana dell’ossigeno ed è anche piuttosto rumorosa, ma il fatto di poter vedere figli e nipoti che erano a casa li faceva sorridere immediatamente. Era davvero una grande gioia da ambo le parti – commenta, non senza un pizzico di commozione – Stiamo parlando di chiamate di 2-3 minuti massimo, perché era giusto che tutti potessero farle ogni giorno, peraltro a una certa distanza perché i tablet li reggevamo noi, ma credo che abbiano davvero fatto la differenza. A queste persone hanno dato speranza e anche la spinta per riprendersi. Abbiamo cercato di coinvolgere tutti, l’unico limite era chi aveva parenti a casa che non avevano whatsapp sul telefono».

Nonostante fossero giorni difficili, ci sono stati anche momenti e persone che hanno fatto sorridere il personale. «C’era anche chi era molto reticente verso la tecnologia – racconta Pace divertita – Come Giancarla: per un’intera settimana, sette giorni su sette, si è sempre negata; nel frattempo ero in contatto con la figlia, che mi diceva di insistere, che quei “no” facevano parte del carattere di sua madre. E infatti l’ottavo giorno l’abbiamo presa in contropiede e l’abbiamo mandata in videochiamata. Da lì in poi è migliorata davvero moltissimo la sua condizione. Altri invece si stupivano di vedersi in video e chiedevano “ma sono io quello lì?”. Per capirci, stiamo parlando di persone di 70-80 anni, che non avevano mai fatto questo tipo di esperienza e che altrimenti non avrebbero avuto contatti con nessuno per giorni e giorni. Possiamo dire che quello che hanno vissuto queste persone, almeno all’inizio, assomiglia a ciò che è accaduto a chi è andato in campo di concentramento. I primi 20 giorni sono stati devastanti. Questi tablet ci hanno dato la possibilità di creare una sorta di surrogato del girovisite e ci hanno anche permesso di entrare nella sfera più personale dei pazienti».

Come descrive la situazione attuale in reparto?

Giusy Pace in reparto

«Ora va molto meglio, sia sul piano delle cure sia per il fatto che il paziente arriva con un livello del virus più precoce – risponde Pace – I primi ricoverati arrivavano qui dopo anche 10 giorni di febbre alta a casa, con la malattia molto più avanzata. Purtroppo non tutti ce l’hanno fatta. È stata una situazione davvero molto difficile da gestire, ma bisognava reagire e noi ci abbiamo provato in tutti i modi. Ora continueremo a offrire questo servizio di videochiamata, ma anche per noi le relazioni sono tutte da ricostruire da zero, perché la platea dei ricoverati è completamente cambiata».

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Elena Ferrara

Nata a Novara, diplomata al liceo scientifico Antonelli, si è poi laureata in Scienze della Comunicazione multimediale all'Università degli studi di Torino. Iscritta all'albo dei giornalisti pubblicisti dal 2006.

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Le videochiamate ispirate da E.T. che hanno salvato tanti nonni. Ricoverati in un letto d'ospedale, improvvisamente e per giorni, non hanno più avuto contatti con i familiari e dall'altra parte, chi era a casa non poteva andarli a trovare. È il dramma che hanno vissuto le persone di 70-80 anni, ricoverate per prime nel primo reparto Covid del Maggiore di Novara. Ma grazie al progetto “Pronto, telefono casa” «siamo riusciti a colmare questa distanza abissale, attraverso i tablet messi a disposizione dal Consorzio scuola comunità impresa di Novara, che ci ha proprio fatto un grande regalo e appoggiandoci alla rete Wi-fi del Comune di Novara». Lo racconta Giusy Pace, coordinatrice infermieristica della direzione sanitaria dell'ospedale Maggiore, che ha ideato il progetto e realizzato materialmente le videochiamate che hanno ricreato il ponte spezzato tra ricoverati e familiari.   «E' nato tutto per caso – spiega – A fine marzo Silvia Rampi della direzione sanitaria mi ha detto che il Consorzio Csci, avendo momentaneamente sospeso alcune attività progettuali che lo vedevano coinvolto, aveva pensato di prestare all’ospedale 4 dei tablet in dotazione al supporto scolastico, tramite interessamento della responsabile Barbara Tosi. Pensando a come utilizzarli ho avuto una sorta di illuminazione: ho pensato a E.T. e alla frase “telefono casa”, nel giro di 24 ore abbiamo fatto partire il progetto delle videochiamate per i ricoverati e devo dire che è stata una grande emozione per tutti. Me compresa, non solo perché conoscevo buona parte delle persone ricoverate», ammette. Com'è andata? «All'inizio non sentivano, perché molti erano sotto la campana dell'ossigeno ed è anche piuttosto rumorosa, ma il fatto di poter vedere figli e nipoti che erano a casa li faceva sorridere immediatamente. Era davvero una grande gioia da ambo le parti – commenta, non senza un pizzico di commozione – Stiamo parlando di chiamate di 2-3 minuti massimo, perché era giusto che tutti potessero farle ogni giorno, peraltro a una certa distanza perché i tablet li reggevamo noi, ma credo che abbiano davvero fatto la differenza. A queste persone hanno dato speranza e anche la spinta per riprendersi. Abbiamo cercato di coinvolgere tutti, l'unico limite era chi aveva parenti a casa che non avevano whatsapp sul telefono». Nonostante fossero giorni difficili, ci sono stati anche momenti e persone che hanno fatto sorridere il personale. «C'era anche chi era molto reticente verso la tecnologia – racconta Pace divertita - Come Giancarla: per un'intera settimana, sette giorni su sette, si è sempre negata; nel frattempo ero in contatto con la figlia, che mi diceva di insistere, che quei “no” facevano parte del carattere di sua madre. E infatti l'ottavo giorno l'abbiamo presa in contropiede e l'abbiamo mandata in videochiamata. Da lì in poi è migliorata davvero moltissimo la sua condizione. Altri invece si stupivano di vedersi in video e chiedevano “ma sono io quello lì?”. Per capirci, stiamo parlando di persone di 70-80 anni, che non avevano mai fatto questo tipo di esperienza e che altrimenti non avrebbero avuto contatti con nessuno per giorni e giorni. Possiamo dire che quello che hanno vissuto queste persone, almeno all'inizio, assomiglia a ciò che è accaduto a chi è andato in campo di concentramento. I primi 20 giorni sono stati devastanti. Questi tablet ci hanno dato la possibilità di creare una sorta di surrogato del girovisite e ci hanno anche permesso di entrare nella sfera più personale dei pazienti». Come descrive la situazione attuale in reparto?
Giusy Pace in reparto
«Ora va molto meglio, sia sul piano delle cure sia per il fatto che il paziente arriva con un livello del virus più precoce – risponde Pace – I primi ricoverati arrivavano qui dopo anche 10 giorni di febbre alta a casa, con la malattia molto più avanzata. Purtroppo non tutti ce l'hanno fatta. È stata una situazione davvero molto difficile da gestire, ma bisognava reagire e noi ci abbiamo provato in tutti i modi. Ora continueremo a offrire questo servizio di videochiamata, ma anche per noi le relazioni sono tutte da ricostruire da zero, perché la platea dei ricoverati è completamente cambiata».

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Elena Ferrara

Nata a Novara, diplomata al liceo scientifico Antonelli, si è poi laureata in Scienze della Comunicazione multimediale all'Università degli studi di Torino. Iscritta all'albo dei giornalisti pubblicisti dal 2006.