Non so che viso avesse

Nelle interviste degli ultimi anni, Francesco Guccini ha sempre posto l’accento sulla sua aspirazione a diventare, non già un cantautore, ma uno scrittore. Alla fin fine Guccini è diventato tutte e due le cose con buon successo. Se però la carriera di cantautore è destinata ad entrare nella storia della musica d’autore italiana, quella di scrittore sembra essersi persa dopo la prova d’esordio; penso all’originale e un po’ maledetto “Croniche Epafàniche”, edito da Feltrinelli nel lontano 1989 . Romanzo autobiografico dal taglio, ma soprattutto dal linguaggio, molto originale che affonda le sue radici nella natia e in un certo senso, atavica Emilia.

 

 

Ma già dalla seconda opera “Vacca d’un cane”, a fronte di un storia anche avvincente, spunta nuovamente e prevedibilmente il tema delle “radici”, che diverrà la monocorde tematica anche del successivo “Cittanova Blues”, dove sembra replicarsi nella scrittura, quanto già evocato musicalmente in “Dalla Via Emilia al West”. Sorvolando sui gialli, scritti a quattro mani con Loriano Macchiavelli, il cui protagonista è il maresciallo Santovito sorta di Montalbano della Pianura, si arriva a questo poderoso volumone dal titolo, piuttosto prevedibile di “Non so che viso avesse”, titolo che riprende l’incipit della stra-celebrata “La Locomotiva”.

Il sottotitolo, “Quasi un’autobiografia”, lascia già intendere che siamo di fronte all’ennesimo “amarcord”. Infatti così è, o almeno è così a metà, poiché dopo un’autobiografia per sommi capi che si perde in aneddoti davvero di poco rilievo, nella seconda parte del libro ci troviamo di fronte ad una biografia, non certo indimenticabile scritta da Alberto Bertoni, molto pomposamente intitolata “Vita e opere di Francesco Guccini”, titolo che si sarebbe forse adattato a Francesco Petrarca e un po’ meno al cantautore modenese, nemico giurato si fa per dire, di Riccardo Bertoncelli. Se l’autobiografia di Guccini non toglie nulla alla sua attività di cantautore, nemmeno aggiunge nulla alla sua figura di scrittore; la biografia seguente scritta da Bertoni, sembra essere più che altro un saggio approfondito, ben documentato e ben argomentato, ma pur sempre una biografia a completamento dello scritto di Guccini. Insomma due biografie per farne una.

Finalmente, nel saggio di Bertoni, è possibile leggere per esteso la stroncatura che Riccardo Bertoncelli fece dalle pagine della rivista “Gong” nel 1975: “Non capisco perché Guccini continui a far canzoni”, scriveva il giovane Bertoncelli. Immodestamente invece penso che sia stato molto meglio per Francesco Guccini (e per la letteratura), l’aver intrapreso la carriera musicale, nonostante gli esordi nella scrittura facessero ben sperare, non hanno certo lo stesso afflato della sua poesia in forma musicale che tutti abbiamo amato e continuiamo ad amare.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Nelle interviste degli ultimi anni, Francesco Guccini ha sempre posto l’accento sulla sua aspirazione a diventare, non già un cantautore, ma uno scrittore. Alla fin fine Guccini è diventato tutte e due le cose con buon successo. Se però la carriera di cantautore è destinata ad entrare nella storia della musica d’autore italiana, quella di scrittore sembra essersi persa dopo la prova d’esordio; penso all’originale e un po’ maledetto “Croniche Epafàniche”, edito da Feltrinelli nel lontano 1989 . Romanzo autobiografico dal taglio, ma soprattutto dal linguaggio, molto originale che affonda le sue radici nella natia e in un certo senso, atavica Emilia.     Ma già dalla seconda opera “Vacca d’un cane”, a fronte di un storia anche avvincente, spunta nuovamente e prevedibilmente il tema delle “radici”, che diverrà la monocorde tematica anche del successivo “Cittanova Blues”, dove sembra replicarsi nella scrittura, quanto già evocato musicalmente in “Dalla Via Emilia al West”. Sorvolando sui gialli, scritti a quattro mani con Loriano Macchiavelli, il cui protagonista è il maresciallo Santovito sorta di Montalbano della Pianura, si arriva a questo poderoso volumone dal titolo, piuttosto prevedibile di “Non so che viso avesse”, titolo che riprende l’incipit della stra-celebrata “La Locomotiva”. Il sottotitolo, “Quasi un’autobiografia”, lascia già intendere che siamo di fronte all’ennesimo “amarcord”. Infatti così è, o almeno è così a metà, poiché dopo un’autobiografia per sommi capi che si perde in aneddoti davvero di poco rilievo, nella seconda parte del libro ci troviamo di fronte ad una biografia, non certo indimenticabile scritta da Alberto Bertoni, molto pomposamente intitolata “Vita e opere di Francesco Guccini”, titolo che si sarebbe forse adattato a Francesco Petrarca e un po’ meno al cantautore modenese, nemico giurato si fa per dire, di Riccardo Bertoncelli. Se l’autobiografia di Guccini non toglie nulla alla sua attività di cantautore, nemmeno aggiunge nulla alla sua figura di scrittore; la biografia seguente scritta da Bertoni, sembra essere più che altro un saggio approfondito, ben documentato e ben argomentato, ma pur sempre una biografia a completamento dello scritto di Guccini. Insomma due biografie per farne una. Finalmente, nel saggio di Bertoni, è possibile leggere per esteso la stroncatura che Riccardo Bertoncelli fece dalle pagine della rivista “Gong” nel 1975: “Non capisco perché Guccini continui a far canzoni”, scriveva il giovane Bertoncelli. Immodestamente invece penso che sia stato molto meglio per Francesco Guccini (e per la letteratura), l’aver intrapreso la carriera musicale, nonostante gli esordi nella scrittura facessero ben sperare, non hanno certo lo stesso afflato della sua poesia in forma musicale che tutti abbiamo amato e continuiamo ad amare.

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