Tra qualche mese, Covid permettendo, andremo a votare per le amministrative e così, tra un aggiornamento dei contagi e delle dosi inoculate di vaccino, le cronache sono piene di candidati e incandidabili. Ai tempi di Dante a Firenze non c’era la casta, chi aveva tempo, mezzi e passione partecipava al governo della cosa pubblica. Ai tanti Consigli che guidavano la città erano ammessi di volta in volta circa 600 cittadini, rinnovati ogni sei mesi e Dante fu uno di loro: è stato un uomo di parte e di partito, protagonista attivo nel ginepraio delle lotte civili; si sospetta di qualche finanziamento illecito agli amici, anche se poi da Priore super partes ha cacciato in esilio il suo caro Guido Cavalcanti.

Si è sicuramente sporcato le mani: difficilmente il processo che lo ha condannato come barattiere, oggi diremmo per peculato, è stato soltanto un processo politico; i Guelfi neri non hanno condannato tutti i loro avversari all’esilio, soltanto i più corrotti e pericolosi. E’ lui stesso a dirci che si è quasi dannato l’anima per la politica, se è vero che così bisogna interpretare la selva oscura in cui si smarrisce. Ma Dante ci ha sempre almeno messo la faccia: non gli sono mancati coraggio civile e indipendenza di giudizio. Ed è innegabile che la sua “Commedia” abbia una valenza pubblica e fortemente politica.

Se c’era da lanciare qualche invettiva anti corruzione, non sapeva cosa fosse il timore reverenziale per le alte cime: ha scaraventato all’inferno a gambe all’aria i Sommi Pontefici simoniaci, quelli, per intenderci, che si vendevano le cariche ecclesiastiche e favorivano i parenti; qualcuno di loro è stato definito “pastor sanza legge”, di un altro ci dice che fosse devoto al fiorino d’oro, invece che a Cristo; persino San Pietro in Paradiso “trascolora” per come i suoi successori han ridotto la Santa Sede in una “cloaca” puzzolente. E Bonifacio VIII, muto! Nemmeno agli Imperatori il poeta la tocca piano: non ai Cesari che trascurano l’Italia, “il giardin de lo ‘mperio”, trasformata in una bestia selvaggia e ormai indomabile, con la giustizia che va a rilento; e nemmeno ad Alberto d’Asburgo, che invita a venire almeno a vergognarsi della sua cattiva fama.

Quel senso della vergogna che sembra ormai merce rara o addirittura fuori corso in buona parte della nostra classe politica, tanto che ormai tutti si candidano, tutti son pronti a sobbarcarsi l’onere “del comune incarco”, come i fiorentini corrotti del tempo di Dante. Qualcuno si offende? “Lascia pur grattar dov’è la rogna”.

Servirebbe, dice Dante e noi con lui, riscoprire le proprie radici culturali e anche religiose, servirebbe la conversione degli uomini e delle società, servirebbe una classe politica e dirigente all’altezza della situazione, servirebbero guide, capi, persone che abbiano un orizzonte ampio e una prospettiva chiara. Ci vorrebbe una bella invettiva…

«Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!»

(Per l’invettiva all’Italia, “Purgatorio” VI, 76 – 151)

 

[Immagine: A. Lorenzetti, Allegoria del buon governo, 1338-39. Siena, Palazzo pubblico]

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Tra qualche mese, Covid permettendo, andremo a votare per le amministrative e così, tra un aggiornamento dei contagi e delle dosi inoculate di vaccino, le cronache sono piene di candidati e incandidabili. Ai tempi di Dante a Firenze non c’era la casta, chi aveva tempo, mezzi e passione partecipava al governo della cosa pubblica. Ai tanti Consigli che guidavano la città erano ammessi di volta in volta circa 600 cittadini, rinnovati ogni sei mesi e Dante fu uno di loro: è stato un uomo di parte e di partito, protagonista attivo nel ginepraio delle lotte civili; si sospetta di qualche finanziamento illecito agli amici, anche se poi da Priore super partes ha cacciato in esilio il suo caro Guido Cavalcanti. Si è sicuramente sporcato le mani: difficilmente il processo che lo ha condannato come barattiere, oggi diremmo per peculato, è stato soltanto un processo politico; i Guelfi neri non hanno condannato tutti i loro avversari all’esilio, soltanto i più corrotti e pericolosi. E’ lui stesso a dirci che si è quasi dannato l’anima per la politica, se è vero che così bisogna interpretare la selva oscura in cui si smarrisce. Ma Dante ci ha sempre almeno messo la faccia: non gli sono mancati coraggio civile e indipendenza di giudizio. Ed è innegabile che la sua “Commedia” abbia una valenza pubblica e fortemente politica. Se c’era da lanciare qualche invettiva anti corruzione, non sapeva cosa fosse il timore reverenziale per le alte cime: ha scaraventato all’inferno a gambe all’aria i Sommi Pontefici simoniaci, quelli, per intenderci, che si vendevano le cariche ecclesiastiche e favorivano i parenti; qualcuno di loro è stato definito “pastor sanza legge”, di un altro ci dice che fosse devoto al fiorino d’oro, invece che a Cristo; persino San Pietro in Paradiso “trascolora” per come i suoi successori han ridotto la Santa Sede in una “cloaca” puzzolente. E Bonifacio VIII, muto! Nemmeno agli Imperatori il poeta la tocca piano: non ai Cesari che trascurano l’Italia, “il giardin de lo ‘mperio”, trasformata in una bestia selvaggia e ormai indomabile, con la giustizia che va a rilento; e nemmeno ad Alberto d’Asburgo, che invita a venire almeno a vergognarsi della sua cattiva fama. Quel senso della vergogna che sembra ormai merce rara o addirittura fuori corso in buona parte della nostra classe politica, tanto che ormai tutti si candidano, tutti son pronti a sobbarcarsi l’onere “del comune incarco”, come i fiorentini corrotti del tempo di Dante. Qualcuno si offende? “Lascia pur grattar dov’è la rogna”. Servirebbe, dice Dante e noi con lui, riscoprire le proprie radici culturali e anche religiose, servirebbe la conversione degli uomini e delle società, servirebbe una classe politica e dirigente all’altezza della situazione, servirebbero guide, capi, persone che abbiano un orizzonte ampio e una prospettiva chiara. Ci vorrebbe una bella invettiva... «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!» (Per l’invettiva all’Italia, “Purgatorio” VI, 76 – 151)   [Immagine: A. Lorenzetti, Allegoria del buon governo, 1338-39. Siena, Palazzo pubblico]

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