“Raccontami, o Musa, l’uomo versatile che a lungo vagò”.

E’ l’inizio dell’Odissea e l’uomo versatile, nel X libro del poema, prende contatto con il mondo degli Inferi per domandare all’indovino Tiresia quale sarà il suo destino. La profezia gli svela il ritorno a Itaca, ma anche che riprenderà a viaggiare e che la morte gli verrà “dal mare”. In tanti hanno provato a narrare questo Ultimo Viaggio avvolto nel mistero.

Anche Dante. Non conoscendo il greco, riceve da Virgilio e dalle “Metamorfosi” di Ovidio il ritratto di un Ulisse “inventore di delitti” e “istigatore di inganni”, dotato di intelligenza e curiosità sempre messe alla prova. Condanna perciò l’eroe omerico nell’ottava bolgia dell’VIII cerchio, tra i fraudolenti avvolti in una lingua di fuoco, per aver ordito l’inganno del cavallo di Troia, aver sottratto il Palladio e aver spinto i suoi compagni, ormai “vecchi e tardi”, con l’abilità fascinosa della sua “orazion picciola”, ad imbarcarsi per un “folle volo” che varca le Colonne d’Ercole, per Dante il simbolo del limite oltre il quale l’uomo non deve spingersi: una sfida arrogante, sorretta da un uso deviato della ragione, che presume di bastare a se stessa nel soddisfare la sete di sapere.

Ma in lui Dante riconosce un’anima gemella, nutrita di profondo e inesauribile desiderio di conoscenza. Non è il poeta a condannarlo per non aver voluto “negar l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente”; è Ulisse a raccontare che la sua sfida si conclude in un naufragio in vista della bruna montagna del Purgatorio, “infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”: per cinque mesi si è illuso di poter esplorare l’emisfero ricoperto dalle acque, poi le onde si sono abbattute sulla nave, “come altrui piacque”.

Dante sa di non andare incontro allo stesso pericolo, il suo viaggio è nel segno del volere divino, ma è ben consapevole di essere sempre stato spinto dal medesimo “ardore a divenir del mondo esperto” e di Ulisse ammira e non condanna la tenacia, la forza e l’intelligenza che lo distinguono dai bruti. Anche nelle terzine della “Commedia” il fascino umanissimo e immortale del personaggio sta proprio nel guardare verso un orizzonte lontano, su cui poi altri grandi poeti per secoli si sono interrogati.

Ulisse ha continuato ad essere un mito che solca i mari.

In Tennyson vuol “bere la vita sino alla feccia”: lascia il regno a Telemaco e se ne va a cercare un mondo nuovo; l’eroe inquieto di Pascoli vuole riascoltare il canto delle Sirene per colmare il senso del vuoto e della vanità della vita; per d’Annunzio è un modello di vita superumana e di inesausta volontà; Gozzano lo vede bene come  playboy a bordo di uno yacht in crociera nel Mediterraneo; il Bloom di Joyce è esule in una città che lo respinge e vaga tra i pericoli di un mondo ostile; Savinio lo libera dal mito, permettendogli di rivendicare la sua libertà e di mandare in pezzi la sua maschera eroica: esce di scena a braccetto con uno spettatore che assiste allo spettacolo.

Ma sono i versi del canto XXVI dell’Inferno che tornano a risuonare in un altro inferno, quello del lager di Auschwitz, quando Primo Levi sforza in ogni modo la sua memoria nel tentativo di ricordare le sequenze del racconto di Ulisse, spinto dall’urgenza di comunicare e insegnare l’italiano a un suo giovane compagno di prigionia: sente che Pikolo può capire, quei versi parlano un linguaggio universale che riguarda tutti; difendono ostinatamente e preservano la dignità umana di fronte al tentativo di annientarla.

“Ma misi me per l’alto mare aperto” sembra un invito irresistibile a saltare il filo spinato, a lasciare traccia di sé, a denunciare.

Il tentativo disperato di ricordare i versi danteschi ci spiega che la letteratura è luogo di memoria, strumento di comprensione, prodotto spirituale che sopravvive all’oblio, ha la meglio sulla riduzione dell’uomo a cosa: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”.

Ulisse non è mai stato soltanto il protagonista di una bella storia, è sempre ricomparso per suscitare curiosità insaziabile e sollevare interrogativi.

E’ mai morto davvero?

Immagine:

G. De Chirico, Il ritorno di Ulisse, 1968.

Condividi:

Facebook
WhatsApp
Telegram
Email
Twitter

© 2024 La Voce di Novara - Riproduzione Riservata
Iscrizione al registro della stampa presso il Tribunale di Novara

Picture of Claudia Cominoli

Claudia Cominoli

Condividi l'articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

SEGUICI SUI SOCIAL

Sezioni

Il suo nome è Nessuno

“Raccontami, o Musa, l’uomo versatile che a lungo vagò”.

E’ l’inizio dell’Odissea e l’uomo versatile, nel X libro del poema, prende contatto con il mondo degli Inferi per domandare all’indovino Tiresia quale sarà il suo destino. La profezia gli svela il ritorno a Itaca, ma anche che riprenderà a viaggiare e che la morte gli verrà “dal mare”. In tanti hanno provato a narrare questo Ultimo Viaggio avvolto nel mistero.

Anche Dante. Non conoscendo il greco, riceve da Virgilio e dalle “Metamorfosi” di Ovidio il ritratto di un Ulisse “inventore di delitti” e “istigatore di inganni”, dotato di intelligenza e curiosità sempre messe alla prova. Condanna perciò l’eroe omerico nell’ottava bolgia dell’VIII cerchio, tra i fraudolenti avvolti in una lingua di fuoco, per aver ordito l’inganno del cavallo di Troia, aver sottratto il Palladio e aver spinto i suoi compagni, ormai “vecchi e tardi”, con l’abilità fascinosa della sua “orazion picciola”, ad imbarcarsi per un “folle volo” che varca le Colonne d’Ercole, per Dante il simbolo del limite oltre il quale l’uomo non deve spingersi: una sfida arrogante, sorretta da un uso deviato della ragione, che presume di bastare a se stessa nel soddisfare la sete di sapere.

Ma in lui Dante riconosce un’anima gemella, nutrita di profondo e inesauribile desiderio di conoscenza. Non è il poeta a condannarlo per non aver voluto “negar l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente”; è Ulisse a raccontare che la sua sfida si conclude in un naufragio in vista della bruna montagna del Purgatorio, “infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”: per cinque mesi si è illuso di poter esplorare l’emisfero ricoperto dalle acque, poi le onde si sono abbattute sulla nave, “come altrui piacque”.

Dante sa di non andare incontro allo stesso pericolo, il suo viaggio è nel segno del volere divino, ma è ben consapevole di essere sempre stato spinto dal medesimo “ardore a divenir del mondo esperto” e di Ulisse ammira e non condanna la tenacia, la forza e l’intelligenza che lo distinguono dai bruti. Anche nelle terzine della “Commedia” il fascino umanissimo e immortale del personaggio sta proprio nel guardare verso un orizzonte lontano, su cui poi altri grandi poeti per secoli si sono interrogati.

Ulisse ha continuato ad essere un mito che solca i mari.

In Tennyson vuol “bere la vita sino alla feccia”: lascia il regno a Telemaco e se ne va a cercare un mondo nuovo; l’eroe inquieto di Pascoli vuole riascoltare il canto delle Sirene per colmare il senso del vuoto e della vanità della vita; per d’Annunzio è un modello di vita superumana e di inesausta volontà; Gozzano lo vede bene come  playboy a bordo di uno yacht in crociera nel Mediterraneo; il Bloom di Joyce è esule in una città che lo respinge e vaga tra i pericoli di un mondo ostile; Savinio lo libera dal mito, permettendogli di rivendicare la sua libertà e di mandare in pezzi la sua maschera eroica: esce di scena a braccetto con uno spettatore che assiste allo spettacolo.

Ma sono i versi del canto XXVI dell’Inferno che tornano a risuonare in un altro inferno, quello del lager di Auschwitz, quando Primo Levi sforza in ogni modo la sua memoria nel tentativo di ricordare le sequenze del racconto di Ulisse, spinto dall’urgenza di comunicare e insegnare l’italiano a un suo giovane compagno di prigionia: sente che Pikolo può capire, quei versi parlano un linguaggio universale che riguarda tutti; difendono ostinatamente e preservano la dignità umana di fronte al tentativo di annientarla.

“Ma misi me per l’alto mare aperto” sembra un invito irresistibile a saltare il filo spinato, a lasciare traccia di sé, a denunciare.

Il tentativo disperato di ricordare i versi danteschi ci spiega che la letteratura è luogo di memoria, strumento di comprensione, prodotto spirituale che sopravvive all’oblio, ha la meglio sulla riduzione dell’uomo a cosa: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”.

Ulisse non è mai stato soltanto il protagonista di una bella storia, è sempre ricomparso per suscitare curiosità insaziabile e sollevare interrogativi.

E’ mai morto davvero?

Immagine:

G. De Chirico, Il ritorno di Ulisse, 1968.

© 2020-2024 La Voce di Novara
Riproduzione Riservata