Sulla montagna della penitenza si scontano i sette peccati capitali, attraverso un’espiazione fisica della colpa e gli esempi della virtù contraria.

Ecco allora che agli occhi di Dante e Virgilio, anche loro in cammino lungo la prima cornice e ignari del luogo, appaiono spiriti che avanzano schiacciati sotto il peso di enormi massi che gravano sulle loro schiene, tutti intenti a recitare la preghiera che ci ha insegnato Gesù, il Padre Nostro: la più sublime delle preghiere per spiegarci l’umiltà e il fiducioso abbandono dei figli al Padre, che riconoscono di non potersi salvare da sé e tutti insieme pregano, per i vivi e per i morti, in un rapporto reciproco di amore e soccorso.

E’ il contrappasso dei superbi, la cui colpa rimanda ad un’eccessiva considerazione di sé stessi e ad un individualismo esasperato. E’ a loro che Dante affida la riflessione sul carattere effimero della gloria dell’uomo, sia essa per nascita, artistica o politica, perché non solo i superbi hanno disprezzato i loro simili e non hanno riconosciuto i meriti altrui, ma si sono vantati di qualcosa che nei fatti non dura.

Quanto può resistere la fama, nel volgere di mille anni? E cosa sono mille anni, se non un battito di ciglia, a confronto con l’eternità?

Eppure c’è chi come Omberto Aldobrandeschi, potente signore ghibellino della Maremma, si vanta della sua antica nobiltà di stirpe e, nonostante il peso opprimente del masso che gli impedisce di sollevare lo sguardo, ripete insistentemente nel suo discorso ‘io, io, io, mio’.

Dante lascia poi la parola a Oderisi da Gubbio, maestro nell’arte della miniatura, per bocca del quale la vanità della gloria terrena non risparmia gli artisti; la perfezione dei suoi capolavori illuminati di splendidi colori è ormai superata, Cimabue è stato sopravanzato da Giotto: l’eccellenza di ogni autore ha breve durata per il sopraggiungere di altri e per il mutamento del gusto.

Dante stesso ha rinnovato la poesia di Guinizzelli e Cavalcanti, ma anche lui china lo sguardo di fronte alla consapevolezza della ‘vana gloria delle umane posse’. Inseguire una fama terrena non può essere lo scopo della propria arte: ‘Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento’, niente resiste all’opera distruttrice del tempo, né i singoli né le loro costruzioni.

Dante sa che anche il migliore degli artisti è un uomo e il suo valore consiste nella conoscenza dei suoi limiti.

L’immagine però che più colpisce i due poeti in viaggio, e il lettore con loro, è quella di un potente e presuntuoso uomo politico di Siena, Provenzano Salvani, la cui fama tanto grande nel giro di un decennio è diventata un debole sussurro: per noi un perfetto sconosciuto. La sua bramosia di dominio cedette per un ideale più alto: depose il suo vano orgoglio, riducendosi ad elemosinare in pubblico per riscattare dalla prigionia un caro amico: Dante non proferisce parola, ma nel gesto di umiltà di Salvani vede la possibilità di conservare alta la fronte nell’umiliazione dell’esilio.

Possiamo imparare anche questo dai versi del sommo poeta, che la superbia è una barriera: ha bisogno dell’altro per esistere, ma è, come diceva Aristotele, un abito del male, genera un conflitto nella relazione e rescinde le radici dell’amore.

[Immagine: Amos Nattini, Illustrazione per il canto XI del Purgatorio, 1939]

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Sulla montagna della penitenza si scontano i sette peccati capitali, attraverso un’espiazione fisica della colpa e gli esempi della virtù contraria.

Ecco allora che agli occhi di Dante e Virgilio, anche loro in cammino lungo la prima cornice e ignari del luogo, appaiono spiriti che avanzano schiacciati sotto il peso di enormi massi che gravano sulle loro schiene, tutti intenti a recitare la preghiera che ci ha insegnato Gesù, il Padre Nostro: la più sublime delle preghiere per spiegarci l’umiltà e il fiducioso abbandono dei figli al Padre, che riconoscono di non potersi salvare da sé e tutti insieme pregano, per i vivi e per i morti, in un rapporto reciproco di amore e soccorso.

E’ il contrappasso dei superbi, la cui colpa rimanda ad un’eccessiva considerazione di sé stessi e ad un individualismo esasperato. E’ a loro che Dante affida la riflessione sul carattere effimero della gloria dell’uomo, sia essa per nascita, artistica o politica, perché non solo i superbi hanno disprezzato i loro simili e non hanno riconosciuto i meriti altrui, ma si sono vantati di qualcosa che nei fatti non dura.

Quanto può resistere la fama, nel volgere di mille anni? E cosa sono mille anni, se non un battito di ciglia, a confronto con l’eternità?

Eppure c’è chi come Omberto Aldobrandeschi, potente signore ghibellino della Maremma, si vanta della sua antica nobiltà di stirpe e, nonostante il peso opprimente del masso che gli impedisce di sollevare lo sguardo, ripete insistentemente nel suo discorso ‘io, io, io, mio’.

Dante lascia poi la parola a Oderisi da Gubbio, maestro nell’arte della miniatura, per bocca del quale la vanità della gloria terrena non risparmia gli artisti; la perfezione dei suoi capolavori illuminati di splendidi colori è ormai superata, Cimabue è stato sopravanzato da Giotto: l’eccellenza di ogni autore ha breve durata per il sopraggiungere di altri e per il mutamento del gusto.

Dante stesso ha rinnovato la poesia di Guinizzelli e Cavalcanti, ma anche lui china lo sguardo di fronte alla consapevolezza della ‘vana gloria delle umane posse’. Inseguire una fama terrena non può essere lo scopo della propria arte: ‘Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento’, niente resiste all’opera distruttrice del tempo, né i singoli né le loro costruzioni.

Dante sa che anche il migliore degli artisti è un uomo e il suo valore consiste nella conoscenza dei suoi limiti.

L’immagine però che più colpisce i due poeti in viaggio, e il lettore con loro, è quella di un potente e presuntuoso uomo politico di Siena, Provenzano Salvani, la cui fama tanto grande nel giro di un decennio è diventata un debole sussurro: per noi un perfetto sconosciuto. La sua bramosia di dominio cedette per un ideale più alto: depose il suo vano orgoglio, riducendosi ad elemosinare in pubblico per riscattare dalla prigionia un caro amico: Dante non proferisce parola, ma nel gesto di umiltà di Salvani vede la possibilità di conservare alta la fronte nell’umiliazione dell’esilio.

Possiamo imparare anche questo dai versi del sommo poeta, che la superbia è una barriera: ha bisogno dell’altro per esistere, ma è, come diceva Aristotele, un abito del male, genera un conflitto nella relazione e rescinde le radici dell’amore.

[Immagine: Amos Nattini, Illustrazione per il canto XI del Purgatorio, 1939]

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