Nasceva ad Alba il primo Marzo del 1922 il migliore dei narratori della Resistenza: non vi è in lui adesione politica o ideologica, ma la scelta di raccontare la storia di una passione tutta umana ed esistenziale. Per questo fu guardato con sospetto, come se ricondurre gli eventi storici ad un’avventura umana non rendesse il giusto merito alla Resistenza.
Non c’è dunque la retorica dell’epopea partigiana nelle pagine di Beppe Fenoglio, in nessuno dei suoi romanzi e racconti: gli uomini sono presentati nei loro gesti quotidiani, hanno dubbi, hanno bisogno di urinare e desiderio di fumare, rantolano alla vista di un amico morto, non riescono a controllare il dolore e trasgrediscono agli ordini di attaccare.
Nel racconto “I ventitré giorni della città di Alba” il conflitto per il possesso della città è una vicenda sgangherata da parte sia di repubblicani sia di partigiani, ‘bravi ragazzi, questi ultimi, ma pieni di brutti difetti’.
Lo scenario sembra una sorta di epos eroicomico:
‘Non successe niente negli otto giorni e nelle otto notti che seguirono’.
La città non è mai stata veramente conquistata a seguito di una vera battaglia, sostituita da occasionali scaramucce:
‘Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 Novembre 1944’.
Non c’è nessuno che si distingua tra quanti partecipano alle azioni di guerriglia, dagli ufficiali repubblicani ‘che piangevano e mugolavano e che si sentivano morire dalla vergogna’, ai partigiani che, appena entrati in Alba non badano solo a procacciarsi armi e carburanti, ma si pavoneggiano ‘bardati da tenenti, capitani e colonnelli’, pronti a farsi ritrarre dai fotografi, ‘con la faccia da combattimento che spaccava l’obiettivo’.
‘I Capi erano entrati in municipio per trattare con il commissario prefettizio, e poi si presentarono al balcone, lentamente, per dare tutto il tempo ad un usciere di stendere per loro un ricco drappo sulla ringhiera. Ma videro abbasso la piazza vuota e deserti i balconi dirimpetto’.
La scrittura di Fenoglio vuole una rappresentazione dimessa della Storia, con qualche sporadica intonazione epica soltanto in funzione dissacrante, come nella scena dell’esodo dei repubblicani che attraversano il Tanaro:
‘Quando poi furono sull’altra sponda e su questa di loro non rimase che polvere ricadente, allora si fermarono e in direzione della libera città di Alba urlarono: – Venduti, bastardi e traditori, ritorneremo e vi impiccheremo tutti!-’
Ma anche l’ingresso dei partigiani nella cittadina non ha nulla di trionfale; se i fascisti sparano solo dopo essersi messi in salvo, i partigiani prendono la città non con la forza, ma mediante ingloriose negoziazioni, e rispondono al fuoco con scarsa convinzione: vittima di una sventagliata di mitragliatrice, che ‘fece aria ai repubblicani che marciarono via di miglior passo’, è ‘una vacca al pascolo sull’altra riva’.
Anche i morti non sono eroi:
‘Il grosso indugiava nel paese, tutti chini tra fumo e polvere a esaminare i cadaveri dei ribelli, le loro reliquie e le loro deiezioni’.
Fenoglio eleva la Resistenza a una dimensione universale, un banco di prova che porta l’individuo a confrontarsi con le proprie debolezze e l’ostilità del mondo, e a fare delle scelte. Violenza, irrazionalità e rinunce sono onnipresenti: resistere implica una catena di sacrifici, tanto più crudeli quanto più insensati, ma non per questo meno necessari.
Nelle debolezze e contraddizioni di un movimento partigiano che l’autore giudica improvvisato e troppo eterogeneo, si rispecchia lo smarrimento interiore di tanti protagonisti, terribilmente incerti su quale sia il loro posto in un mondo in preda al caos e alla distruzione della guerra.
Anche i soldati tedeschi sono colti, attraverso immagini evocative, nella loro umana fragilità:
‘Gli unici tedeschi in vista stavano scalando la pietraia fuori dall’abitato, somigliavano a una colonia di formiche verdi arrampicatasi su di un legume sbiancato’.
E’ in questa umana fragilità che il lettore può facilmente ritrovarsi.
(Immagine: l’autore sullo sfondo delle colline piemontesi)