Che cosa è venuto a fare un poeta come Valerio Magrelli a Novara, ospite del Circolo dei lettori per il festival ‘Scarabocchi’?. Che cosa c’entra un artista della parola con le macchie strampalate e i segni casuali che i bambini adoperano quando ancora non sanno scrivere?
Accade che ‘nei disegni dei bambini / colpisce la violenza delle linee. / La mente sembra crescere di sghembo / portandosi via la matita. / Tutto è storto e perenne / o forse solo piegato / come quando scendendo nell’acqua / pare spezzarsi il remo.’
Secondo Magrelli, che ha scritto questi versi più di 30 anni fa, l’infanzia ‘genera una straordinaria flora tropicale sotto forma di linee, fogli colorati, macchie, combinazioni cromatiche’; scarabocchi e sgorbi, ma un primo passo di avvicinamento alle forme sulla carta, molto grossolano all’inizio, poi sempre più raffinato, fino a diventare storie.
L’idea di dipingere con le parole risale a pittogrammi, ideogrammi e geroglifici, all’origine cioè dei grandi sistemi di scrittura per immagini. Nella nostra cultura, soprattutto da adulti, sviluppiamo sovente una forma di pregiudizio verso il disegno, dimenticandoci che il linguaggio visivo è un supporto formidabile per il pensiero e la ricerca interiore; il foglio bianco è sfida e terrore per ogni artista, averlo davanti con una matita o una penna in mano obbliga a buttar giù quello che la mente e il cuore vorrebbero comunicare: immagini e parole sono lo specchio dei nostri pensieri e desideri, strumenti di dialogo con noi stessi e il mondo circostante.
Valerio Magrelli ci legge un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, il poeta dialettale romano che, pur essendo un serio impiegato dell’amministrazione pontificia di inizio Ottocento, dichiara che di fronte ad un bel muro bianco ritorna ragazzo, e ancora prova il gusto di scarabocchiare: ‘La nostra gran zodisfazzione / de noantri quann’èrimo regazzi / era a le case nove e a li palazzi / de sporcajje li muri cor carbone […] Quelle sò bbell’età, pper dio de leggno! /Sibbè cc’adesso puro me la godo / e ssicc’è mmuro bbianco io je lo sfreggno.’
Nostalgia dell’adolescenza, o piuttosto un’ allusione all’impeto di protestare? E allora niente di meglio che uno sfregio alla lingua italiana ricorrendo al lessico popolare del dialetto, o uno scarabocchio di carbone con cui deturpare il conformismo.
Nei testi di Magrelli non è raro incontrare termini come carta, gomma, matita, pagina, quaderno, e un linguaggio attento ad indicare con precisione i contorni degli oggetti e a ritrarre i volti delle persone amate: ‘Mio figlio copia lettere di fuoco, / maiuscole che guizzano miniate. / Scruta per ore un libro di graffiti / riproducendo sul suo quadernetto /talismani illeggibili: / li aiuta a ardere meglio disegnando, / in un futuro criptato, / l’oroscopo della sua generazione. / E cancella, e dipinge, e corregge /
affinché i fiammeggianti arabeschi / si contorcano nella vampa del colore / come le vittime di un rogo sacrificale / chiamate a ammonire i passanti /e insieme mostrare l’ustione / immedicata dell’adolescenza.’
E’ sempre alla metafora del disegno che il poeta ricorre per rivelare la necessità di rendere più acute le sue capacità di comprensione; dove la ragione non arriva, affaticata nel tentativo di interpretare i messaggi che giungono alla vista, viene in soccorso la poesia: ‘Sto rifacendo la punta al pensiero, / come se il filo fosse logoro / e il segno divenuto opaco. / Gli occhi si consumano come matite / e la sera disegnano sul cervello / figure appena sgrossate e confuse. / Le immagini oscillano e il tratto si fa incerto, / gli oggetti si nascondono’.
Tracciare un segno vuol dire anche diventare qualcosa capace di sopravvivere alla morte; quale migliore opportunità, quindi, se non condividere con una matita la capacità di trasferire sulla carta ciò che è dentro di noi e trasformarlo in espressione e pensiero: ‘Essere matita è segreta ambizione. / Bruciare sulla carta lentamente / e nella carta restare / in altra nuova forma suscitato. / Diventare così da carne segno, / da strumento ossatura / esile del pensiero’.
La grafite resta sulla carta sotto forma di parole, si trasforma in un sottile scheletro che sostiene idee e pensieri, la sua eclissi lascia qualcosa di prezioso, destinato a durare.
La scrittura di Magrelli sa anche dipingere segni visivi, usando i colori per amplificare il significato di certe immagini e parole: ‘Ricevo da te questa tazza / rossa per bere ai miei giorni / uno a uno / nelle mattine pallide […] E ogni volta che il manico / o l’orlo si incrineranno / tornerò a incollarli / finché il mio amore non avrà compiuto / l’opera dura e lenta del mosaico. / Scende lungo il declivio / candido della tazza […] la crepa / nera, fissa, / segno di un temporale / che continua a tuonare / sopra il paesaggio sonoro, / di smalto’.
Il colore squillante della tazza la fa emergere dalle mattine pallide, dal carattere sbiadito della quotidianità, è segno di un amore che come un mosaico è ricco di molteplici tonalità cromatiche, legate insieme a formare un disegno unitario; e se si apre una crepa nera sulla superficie smaltata, quel segno che colpisce lo sguardo va riparato, come uno screzio che viene a turbare l’armonia di un rapporto.
Chissà se Magrelli aveva in mente il Kintsugi, l’arte giapponese di riparare le ceramiche rotte utilizzando una lacca dorata: mi piace pensarlo, data la sua empatia verso gli oggetti che porta a scoprirne la bellezza.
Ma anche quando racconta come avviene il suo processo creativo, finisce che le parole, spostate, deformate e ricomposte, danno vita, per ottenere effetti ancora più espressivi, ad un disegno: ‘Scivola la penna / verso l’inguine della pagina, / e in silenzio si raccoglie la scrittura. /Questo foglio ha i confini geometrici / di uno stato africano, in cui dispongo / i filari paralleli delle dune. / Ormai sto disegnando / mentre racconto ciò / che raccontando si profila. / E’ come se una nube / arrivasse ad avere / forma di nube.’