Oriana Fallaci ed Elsa Morante parlavano di se stesse al maschile, si definivano scrittori. La prima diceva: ‘Sono nata per essere scrittore’; Alda Merini voleva essere chiamata poeta, e non poetessa, per sfidare un ambiente come quello della poesia italiana del Novecento dominato dagli uomini. La Morante addirittura rifiutò di partecipare ad un’antologia di poesie femminili, perché l’idea che esistessero una letteratura femminile e una maschile le era sempre sembrata una sciocchezza, e difese la libertà della scrittura da ogni determinazione anche di genere.

Eppure per secoli le donne sono state costrette o a firmare i loro libri con pseudonimi maschili o a sperimentare diffidenza e pregiudizi che l’essere donna attira anche nell’ambiente letterario.

Ma se è vero che la buona letteratura non ha genere e cercare di attaccarle un’etichetta rischierebbe di sminuirla, è stato proprio attraverso la scrittura fiera e indipendente di tante donne che si sono scagliate lance a favore della parità e dell’emancipazione: non una scrittura ‘al femminile’ né una cultura della differenza, ma la qualità del testo che, quando è letteratura, va oltre le variabili dei tempi.

Non è dunque solo una questione di genere, anche se l’altra metà del cielo ha di peculiare un estremo coraggio dello sguardo: rivolto dentro di sé, anche a rischio di trovare il buio e l’orrore, e notevolmente anticonformista e diretto nel vedere e dire le cose del mondo, nelle scelte che portano alla rivolta, all’esilio, all’impegno politico al di là degli stereotipi.

La rubrica quest’anno darà voce alle donne non come oggetto poetico o muse ispiratrici, ma come autrici e soggetto della propria esperienza e sensibilità.

Ad un anno di distanza dallo scoppio di una guerra devastante nel cuore dell’Europa, dedico il primo articolo ad Anna Andreevna Achmatova, poetessa russa nata in Ucraina nel 1889. Si chiamava in realtà Gorenko, ma il padre le chiese di non firmare i suoi versi con il nome di famiglia: la figlia di un nobile che scrive versi d’amore, abbandono e solitudine avrebbe dato scandalo, e così scelse il cognome tartaro della nonna.

Fu vittima della censura negli anni delle purghe staliniane, ma è rimasta nel suo paese scegliendo di resistere alla dittatura, alla guerra e di testimoniare il martirio del popolo russo e il suo personale, attraverso il ciclo ‘Requiem’: ‘no, non sotto un cielo straniero, / non al riparo di ali straniere: / io ero allora con il mio popolo, / là dove, per sventura, il mio popolo era’.

Sentiva di poter essere la voce di tutti: ‘Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato, / il riflesso del vostro volto, / i vani palpiti di vane ali…/ fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi’.

Il primo marito, il poeta Nikolaj Gumilëv, fu fucilato nel 1921 per una presunta cospirazione antibolscevica; il figlio Lev venne arrestato più volte tra il 1935 e il 1940, poi condannato ai lavori forzati nel 1949 per 15 anni.

Come tante altre madri e mogli di prigionieri politici, fece la fila per diciassette mesi davanti al carcere di Leningrado per lasciare soldi, cibo e indumenti per il figlio, pronta, come le altre centinaia di donne, a vedersi respingere quel pacco perché il proprio caro era stato condannato o già giustiziato.

In anni in cui per una poesia si poteva morire, Anna Achmatova compone a mente il poemetto ‘Requiem’, testimonianza del gelo, del silenzio impotente e dello strazio condiviso, anche in risposta alla domanda di una donna che, riconosciutala, le chiese: ‘Ma questo lei può descriverlo?’. ‘Posso’.

‘Diciassette mesi che grido, / ti chiamo a casa. / Mi gettavo ai piedi del boia, / Figlio mio e mio terrore. / Tutto s’è confuso per sempre, / e non riesco a capire / ora chi sia la belva e chi l’uomo, / e se a lungo attenderò l’esecuzione. / E solo fiori polverosi, e il tintinnio / del turibolo, e le tracce / chissà dove del nulla. / E diritto negli occhi mi fissa / e una prossima morte minaccia / l’enorme stella’.

‘Ti hanno portato via all’alba, / io ti venivo dietro, come a un funerale, / nella stanza buia i bambini piangevano, / sull’altarino il cero sgocciolava. / Sulle tue labbra il freddo dell’icona. / Il sudore mortale sulla fronte…Non si scorda! / Come le mogli degli strelizzi, ululerò / sotto le torri del Cremino’.

‘La sentenza’ condensa in pochi versi il dolore e la reazione alla notizia della condanna a morte del figlio, poi commutata in lavori forzati: ‘E sul mio petto ancora vivo / piombò la parola di pietra. / Non fa nulla, vi ero pronta, / in qualche modo ne verrò a capo. / Oggi ho da fare molte cose: / occorre sino in fondo uccidere la memoria, / occorre che l’anima impietrisca, / occorre imparare di nuovo a vivere.

Se no… Oltre la finestra / l’ardente fremito dell’estate, come una festa. / Da tempo lo presentivo: / un giorno radioso e la casa deserta’.

Ogni singolo verso vale più di qualsiasi guerra, di due capi che non sanno ascoltare pensieri profondi e visioni complesse dell’uomo e della natura. La guerra purtroppo fa parte della vita, ma la letteratura è dialogo, scambio; non sarà mai divisiva, semmai il miglior antidoto a qualsiasi forma di propaganda.

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L’altro canto

Oriana Fallaci ed Elsa Morante parlavano di se stesse al maschile, si definivano scrittori. La prima diceva: ‘Sono nata per essere scrittore’; Alda Merini voleva essere chiamata poeta, e non poetessa, per sfidare un ambiente come quello della poesia italiana del Novecento dominato dagli uomini. La Morante addirittura rifiutò di partecipare ad un’antologia di poesie femminili, perché l’idea che esistessero una letteratura femminile e una maschile le era sempre sembrata una sciocchezza, e difese la libertà della scrittura da ogni determinazione anche di genere.

Eppure per secoli le donne sono state costrette o a firmare i loro libri con pseudonimi maschili o a sperimentare diffidenza e pregiudizi che l’essere donna attira anche nell’ambiente letterario.

Ma se è vero che la buona letteratura non ha genere e cercare di attaccarle un’etichetta rischierebbe di sminuirla, è stato proprio attraverso la scrittura fiera e indipendente di tante donne che si sono scagliate lance a favore della parità e dell’emancipazione: non una scrittura ‘al femminile’ né una cultura della differenza, ma la qualità del testo che, quando è letteratura, va oltre le variabili dei tempi.

Non è dunque solo una questione di genere, anche se l’altra metà del cielo ha di peculiare un estremo coraggio dello sguardo: rivolto dentro di sé, anche a rischio di trovare il buio e l’orrore, e notevolmente anticonformista e diretto nel vedere e dire le cose del mondo, nelle scelte che portano alla rivolta, all’esilio, all’impegno politico al di là degli stereotipi.

La rubrica quest’anno darà voce alle donne non come oggetto poetico o muse ispiratrici, ma come autrici e soggetto della propria esperienza e sensibilità.

Ad un anno di distanza dallo scoppio di una guerra devastante nel cuore dell’Europa, dedico il primo articolo ad Anna Andreevna Achmatova, poetessa russa nata in Ucraina nel 1889. Si chiamava in realtà Gorenko, ma il padre le chiese di non firmare i suoi versi con il nome di famiglia: la figlia di un nobile che scrive versi d’amore, abbandono e solitudine avrebbe dato scandalo, e così scelse il cognome tartaro della nonna.

Fu vittima della censura negli anni delle purghe staliniane, ma è rimasta nel suo paese scegliendo di resistere alla dittatura, alla guerra e di testimoniare il martirio del popolo russo e il suo personale, attraverso il ciclo ‘Requiem’: ‘no, non sotto un cielo straniero, / non al riparo di ali straniere: / io ero allora con il mio popolo, / là dove, per sventura, il mio popolo era’.

Sentiva di poter essere la voce di tutti: ‘Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato, / il riflesso del vostro volto, / i vani palpiti di vane ali.../ fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi’.

Il primo marito, il poeta Nikolaj Gumilëv, fu fucilato nel 1921 per una presunta cospirazione antibolscevica; il figlio Lev venne arrestato più volte tra il 1935 e il 1940, poi condannato ai lavori forzati nel 1949 per 15 anni.

Come tante altre madri e mogli di prigionieri politici, fece la fila per diciassette mesi davanti al carcere di Leningrado per lasciare soldi, cibo e indumenti per il figlio, pronta, come le altre centinaia di donne, a vedersi respingere quel pacco perché il proprio caro era stato condannato o già giustiziato.

In anni in cui per una poesia si poteva morire, Anna Achmatova compone a mente il poemetto ‘Requiem’, testimonianza del gelo, del silenzio impotente e dello strazio condiviso, anche in risposta alla domanda di una donna che, riconosciutala, le chiese: ‘Ma questo lei può descriverlo?’. ‘Posso’.

‘Diciassette mesi che grido, / ti chiamo a casa. / Mi gettavo ai piedi del boia, / Figlio mio e mio terrore. / Tutto s'è confuso per sempre, / e non riesco a capire / ora chi sia la belva e chi l'uomo, / e se a lungo attenderò l'esecuzione. / E solo fiori polverosi, e il tintinnio / del turibolo, e le tracce / chissà dove del nulla. / E diritto negli occhi mi fissa / e una prossima morte minaccia / l'enorme stella’.

‘Ti hanno portato via all’alba, / io ti venivo dietro, come a un funerale, / nella stanza buia i bambini piangevano, / sull’altarino il cero sgocciolava. / Sulle tue labbra il freddo dell’icona. / Il sudore mortale sulla fronte…Non si scorda! / Come le mogli degli strelizzi, ululerò / sotto le torri del Cremino’.

‘La sentenza’ condensa in pochi versi il dolore e la reazione alla notizia della condanna a morte del figlio, poi commutata in lavori forzati: ‘E sul mio petto ancora vivo / piombò la parola di pietra. / Non fa nulla, vi ero pronta, / in qualche modo ne verrò a capo. / Oggi ho da fare molte cose: / occorre sino in fondo uccidere la memoria, / occorre che l’anima impietrisca, / occorre imparare di nuovo a vivere.

Se no… Oltre la finestra / l’ardente fremito dell’estate, come una festa. / Da tempo lo presentivo: / un giorno radioso e la casa deserta’.

Ogni singolo verso vale più di qualsiasi guerra, di due capi che non sanno ascoltare pensieri profondi e visioni complesse dell’uomo e della natura. La guerra purtroppo fa parte della vita, ma la letteratura è dialogo, scambio; non sarà mai divisiva, semmai il miglior antidoto a qualsiasi forma di propaganda.

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