«Se ripenso a un anno fa, mi viene in mente una cosa prima di tutte: nessuno di noi credeva possibile che potesse succedere di nuovo. In Ucraina la guerra è iniziata nel 2014, poi è stata arginata in due sole regioni ed eravamo convinti non ci avrebbe più toccati. Invece è tornata e per noi è stato un nuovo inizio, ancora più devastante». Padre Yuriy Ivanyuta è il referente della comunità ucraina non solo di Novara, ma anche di Borgomanero, Omegna e Vercelli, e dal 24 febbraio dello scorso anno non ha mai smesso di lavorare per dare una mano ai profughi e alle loro famiglie.
Come ha reagito quando si è reso conto di quello che stava accadendo?
«Le prime tre settimane sono state le più tremende. Mi chiedevo in continuazione: cosa devo fare? Devo dare priorità a chi è rimasto in Ucraina o a chi è arrivato qui? Ho scelto la seconda perché aiutare gli altri mi consentiva di non pensare. Le profughe, erano quasi tutte donne, erano terrorizzate, arrivavano qui senza vestiti e senza documenti, dovevano essere seguite in tutto. Grazie anche alla disponibilità della Questura siamo riusciti a sistemare almeno la parte burocratica. Poi, però, c’era tutta quella psicologica di cui mi sentivo responsabile.
Da subito i novaresi si sono dimostrati molto solidali…
Non smetterò mai di ringraziare tutti i privati cittadini, gli enti, le fondazioni e le associazioni che ci hanno aiutato concretamente. L’emergenza però non è finita. Tutte le settimane ci sono settanta famiglie che si rivolgono al nostro centro raccolta di viale Dante. Sono circa trecento persone tra donne, bambini e uomini con gravi problemi di salute che hanno bisogno di tutto, dal cibo ai vestiti. Ma ormai gli aiuti sono pari a zero. L’unico che ancora fa qualche donazione è il Banco alimentare oltre a qualche anziano. Un anno fa era sufficiente il permesso di soggiorno per usufruire della distribuzione; man mano che la raccolta diminuiva abbiamo messo delle regole: solo chi non lavora può accedere, chi ha un contratto deve imparare a mantenersi.
Di cosa c’è bisogno?
Cibo a lunga conservazione, vestiti puliti e in buono stato, antibiotici e antifiammatori. Cerchiamo di dividere quello che serve ai profughi e quello che può essere spedito in Ucraina, ma ormai è difficile, non abbiamo abbastanza risorse per soddisfare tutto.
Intanto martedì è partito un tir.
Sì da Vercelli con gli aiuti della Caritas e dell’esarcato e due furgoni con gli aiuti da Novara. Cerchiamo di restare in contatto con le comunità delle città vicine per rendere più efficace la rete.
Come è cambiata la comunità ucraina dopo la guerra?
Nonostante per noi sia la terza volta, e anche la più forte, alla guerra non ci si abitua mai. All’inizio ero preoccupato per alcune signore che continuavano a leggere notizie sui social e non vivevano più: ho temuto per la loro salute. Poi in estate la situazione è migliorata. Ora c’è molta stanchezza e nervosismo perché ci si sente impotenti di fronte a una situazione del genere.
È più sereno anche lei per la sua famiglia che vive in Ucraina?
Ho passato momenti di angoscia con una sorella che viveva a Kiev costretta a fuggire a vicino a Ternopil, dove vivono i miei genitori. Oggi è tutto più tranquillo, nonostante ci sia ancora qualche bombardamento. Mio cognato, invece, è stato colpito a Soledar e ha perso un occhio. Dopo che era stato portato via con i feriti, il suo reparto è stato attaccato: sono morti tutti tranne lui.
In questi giorni si stanno moltiplicando le manifestazioni per la pace.
Sì è vero, me l’hanno riferito, ma non sempre queste iniziative hanno davvero come scopo la pace. Alcune volte si tratta di associazioni che, il pretesto della guerra, scendono in piazza per altri obiettivi ben lontani. La pace, invece, è un concetto complesso che si costruisce nel tempo e con l’aiuto di tutti.
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