Delitto nei boschi di Pombia: la Cassazione conferma 26 anni di carcere per il mandante

tribunale il caldo
Respinto il ricorso presentato dall’imprenditore edile Giuseppe Cauchi, considerato il mandante dell’omicidio di Matteo Mendola, operaio di 33 anni

Sentenza definitiva: deve scontare 26 anni di carcere per il delitto di Pombia. Mercoledì sera la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dall’imprenditore edile Giuseppe Cauchi, considerato il mandante dell’omicidio di Matteo Mendola, operaio di 33 anni il cui corpo senza vita fu trovato la mattina del 5 aprile 2017 nei boschi in frazione San Giorgio di Pombia.

La sera prima la vittima, per questione economiche pregresse legate al gruppo di gelesi da tempo abitanti a Busto Arsizio, era stata attirata con una trappola nella valle del Ticino – la scusa di andare tutti assieme a commettere dei furti in villa nel Novarese – e poi aggredita dagli esecutori materiali già condannati tempo fa con sentenza definitiva a 30 anni di carcere in abbreviato: Antonio Lembo aveva sparato alcuni colpi di pistola e, aiutato dal cognato Angelo Mancino, aveva poi fracassato il cranio dell’operaio con una vecchia matteria d’auto trovata fra i rifiuti, per nascondere infine il cadavere in una vecchia fabbrica dimessa.

Sul fatto avevano indagato i carabinieri di Novara, che pian piano avevano messo assieme tutti i tasselli. Il killer Lembo, nella sua confessione, aveva indicato quale mandante del delitto l’imprenditore Giuseppe Cauchi, anche lui di Busto Arsizio: assolto in primo grado dalla Corte d’Assise di Novara, che aveva ritenuto confuse le dichiarazioni dell’esecutore materiale, in Appello era stato condannato lo scorso anno a 26 anni. La difesa ha presentato ricorso in Cassazione, che è stato respinto l’altro giorno al termine della discussione in aula a Roma. In base a quanto è emerso nei vari processi, Cauchi avrebbe fatto anche in sopralluogo a Pombia assieme a Lembo, precedentemente l’omicidio, per cercare il posto più adatto, e l’arma del delitto, la pistola, era custodita nel suo ufficio ed era stata poi consegnata al killer.

I famigliari della vittima, parte civile, hanno ottenuto il risarcimento dei danni.

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Respinto il ricorso presentato dall’imprenditore edile Giuseppe Cauchi, considerato il mandante dell’omicidio di Matteo Mendola, operaio di 33 anni

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Sentenza definitiva: deve scontare 26 anni di carcere per il delitto di Pombia. Mercoledì sera la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dall’imprenditore edile Giuseppe Cauchi, considerato il mandante dell’omicidio di Matteo Mendola, operaio di 33 anni il cui corpo senza vita fu trovato la mattina del 5 aprile 2017 nei boschi in frazione San Giorgio di Pombia.

La sera prima la vittima, per questione economiche pregresse legate al gruppo di gelesi da tempo abitanti a Busto Arsizio, era stata attirata con una trappola nella valle del Ticino – la scusa di andare tutti assieme a commettere dei furti in villa nel Novarese – e poi aggredita dagli esecutori materiali già condannati tempo fa con sentenza definitiva a 30 anni di carcere in abbreviato: Antonio Lembo aveva sparato alcuni colpi di pistola e, aiutato dal cognato Angelo Mancino, aveva poi fracassato il cranio dell’operaio con una vecchia matteria d’auto trovata fra i rifiuti, per nascondere infine il cadavere in una vecchia fabbrica dimessa.

Sul fatto avevano indagato i carabinieri di Novara, che pian piano avevano messo assieme tutti i tasselli. Il killer Lembo, nella sua confessione, aveva indicato quale mandante del delitto l’imprenditore Giuseppe Cauchi, anche lui di Busto Arsizio: assolto in primo grado dalla Corte d’Assise di Novara, che aveva ritenuto confuse le dichiarazioni dell’esecutore materiale, in Appello era stato condannato lo scorso anno a 26 anni. La difesa ha presentato ricorso in Cassazione, che è stato respinto l’altro giorno al termine della discussione in aula a Roma. In base a quanto è emerso nei vari processi, Cauchi avrebbe fatto anche in sopralluogo a Pombia assieme a Lembo, precedentemente l’omicidio, per cercare il posto più adatto, e l’arma del delitto, la pistola, era custodita nel suo ufficio ed era stata poi consegnata al killer.

I famigliari della vittima, parte civile, hanno ottenuto il risarcimento dei danni.

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