Ancora una volta la ex caserma Passalacqua ha ospito l’appuntamento primaverile di Novara Jazz con l’ormai tradizionale “Nj Weekender spring edition” e, visto il sold out, bisogna ammettere che questa formula allo spazio “Nòva” funziona piuttosto bene, anche se “Nòva” incontra solo in parte il mio favore, per i dubbi più volte esposti, dovuti alla necessità di assistere ai concerti in piedi (o riuscendo miracolosamente a sedersi, sottraendo a qualcuno qualche sparuta seggiola), ambiente piacevolmente informale ma a volte poco attento ai musicisti, se vogliamo un po’ “de ja vu“ almeno per chi il “Leoncavallo”, “Macondo” o la “Palazzina Liberty” li ha frequentati a suo tempo.
Ma veniamo alla musica e che musica! Il primo dei due concerti vede l’incontro di due eccellenti musicisti come Zoe Pia e Mats Gustafsson che imbastiscono una specie di rito sonoro intriso di un aspetto sacrale, senza la necessità di alcuna divinitàda invocare. Zoe Pia, ipnotica e ascetica, brandisce gli strumenti del rito (clarinetto, launeddas, campanacci sardi, elettronica e lumanoise), e Mats Gustafsson sembra commentare con il controcanto del suo sax. Un pezzo unico che incomincia nel buio e con i sussulti dell’elettronica di Zoe e gli inserti “puntillisti” di Mats che via via si fanno più coraggiosi e preponderanti. Sembra facile “far rumore” ma, naturalmente questo non lo è, e non lo è quando alla base di una composizione c’è un’idea come quella di questo progetto, una composizione che guarda dritto in faccia, come lo sguardo ieratico di Zoe, al potere trascendente del sacro.
Un non-detto sonoro che affascina il folto pubblico rapito (anche) dalla determinazione dei due musicisti-performer; magnifico poi l’inserto del duetto di clarinetto e flauto (raramente sacralità e mito nella musica sanno star lontani dal flauto). Pare davvero che questa “spring edition” di Nj Weekender sia improntata ad una sorta di misticismo laico, poiché subito dopo è la volta di un grande sciamano della musica che sembra uscito da una casa occupata di Camden Town negli anni Settanta. Angus Fairbairn, questo il suo vero nome e che, come ha scritto Alberto Campo su “il Giornale della musica”, ha del jazz un’idea tutta sua. Ed effettivamente è impossibile una sua precisa classificazione (e questo non è detto che sia un male).
A condurre le danze è sempre lui, nonostante la presenza di Ruth Goller al basso e di Momoko Fill alla batteria, che sembrano essere sue due preziose ancelle. Alabaster inframezza i pezzi vibranti e dolcemente avvolgenti, con sermoni che sembrano stare a metà strada tra il non-sense di Edward Lear e la predicazione tra il serio e il faceto di un oratore di Hyde Park corner. Scherzi a parte, il messaggio di Alabaster è abbastanza chiaro: le vibrazioni del suo sax, il ritmo circolare e seriale dei suoi brani, l’ampio spazio lasciato al canto quasi salmodiato, con Ruth e Momoko, e le parole magnetiche che ci parlano dell’energia che fa sì che il tempo dei brani si trasformi nel “nostro” tempo, un tempo simbiotico tra pubblico e musicista, ci indicano la sua concezione musicale rituale e mistica, ossia la musica come momento di comunione tra spirito e corpo. Poesia e musica aleggiano nella gremitissima sala di Nòva e culminano in un momento di struggente dolcezza con la ninna nanna che Alabaster dedica alla Palestina e al suo martoriato popolo.
Due concerti accomunati da una energia positiva mistica, ma non priva di una certa ironia. Gran bella serata di una quasi-primavera piovosa.