Adrain Piper alla Pac di Milano con “Race Traitor”

Nel 2015 la Biennale di Venezia premiò con il Leone d’Oro, Adrain Piper come miglior artista partecipante alla prestigiosa manifestazione. Forse un riconoscimento tardivo, in considerazione del fatto che la sua miglior produzione è relativa agli anni Sessanta e Settanta, tuttavia il premio va visto appunto come una sorta di premio alla carriera. La magnifica mostra al Pac di Milano “Race Traitor”, curata da Diego Sileo, è la prima esposizione dell’opera dell’artista statunitense in Europa (aperta fino al 9 giugno prossimo) ed è una occasione da non mancare, come si dice in questi casi.

Adrian Piper «troppo bianca per i neri, troppo nera per i bianchi», è un artista minimalista, concettuale, ma prima di tutto politica, anche se questa categoria etica ed estetica sembra non esistere più. Ma se entriamo nello specifico, il tratto che contraddistingue la sua opera è certamente quello di una fiera militante antirazzista : di lei, e di artisti come lei, ce n’è quanto mai bisogno nelle nostre società malate e minate da questo disturbo della psiche umana.

Nella grande sala d’ingresso al Pac i primi lavori della Piper degli anni Sessanta, tra queste la celebre “Barbara Epstein with Doll”, con la bambola (a tre dimensioni) che sconfina dalla tela la (prevedibilmente) coloratissima “LSD Self-Portrait from the Inside Out”. Magnifica la serie di “Concrete Infinite Documentation Piece”, diario fotografico (uno scatto al giorno) con un progressivo oscuramento dell’immagine. Ma sono certamente le opere che hanno come oggetto la discriminazione razziale le più significative e che definiscono la cifra stilistica dell’artista. Qui, dovendo scegliere di commentare qualche opera non c’è davvero che l’imbarazzo della scelta: tra le opere più importanti ed esteticamente pregevoli dell’esposizione di Adrian Piper è la serie “Decide Who You Are”.

Nel 1991 la stampa statunitense si occupò del caso di Anita Hill, una giovane avvocata afroamericana che testimoniò di aver subito molestie sessuali da Clarence Thomas, giudice afroamericano, nominato alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il dibattito mediatico, che ebbe anche risvolti razzisti, arrivò a travisare la posizione della vittima, facendone una seduttrice, e il caso fu tra gli eventi che innescarono l’avvio della terza ondata del femminismo internazionale. La fotografia della Hill, all’età di 8 anni, sovraimpressa a un testo in cui la Piper riporta commenti censori, è l’elemento costante nella serie “Decide Who You Are” del 1992. Si tratta di una composizione di pannelli, alla cui base ritroviamo ancora la struttura della griglia, in cui a destra c’è sempre la Hill mentre a sinistra si trovano un disegno ingrandito delle tre scimmiette (realizzato dall’artista) e un testo variabile riguardante razzismo, sessismo ecc.

Tra questi due pannelli laterali sono disposte di volta in volta immagini riprese dai giornali il cui contenuto si riferisce al testo di sinistra. All’inizio degli anni Novanta, legata alla malattia della madre ecco “Am Some Body, The Body of My Friends” (1992-95), nel quale l’artista si scatta delle fotografie insieme ad amici e persone che la fanno stare bene. Nel 1995 il MOCA di Los Angeles organizza la mostra “1965-1975: Reconsidering the Object of Art”. In quell’occasione la Piper presenta “Ashes to Ashes”, un’opera che viene rifiutata (sponsor della mostra era la Philip Morris) dedicata alla memoria della madre, Olive Xavier Smith Piper, nella quale la Piper mette in evidenza i danni letali che il fumo da sigaretta ha provocato nella vita dei suoi genitori. Trovo assolutamente dirompenti e molto efficaci le opere della serie “Vanilla Nightmare”, interventi a matita e carboncino sulle pagine de “The New York Times” e realizzate tra il 1986 e il 1989.

In una delle più efficaci, una sensualissima donna si lascia travolgere dalla fragranza di “Poison”, profumo della Maison Dior, mentre alle sue spalle alcuni afroamericani cercano (vampirescamente) di abusare di lei. Che differenza c’è tra quest’opera di Adrian Piper e gli insulti razzisti che compaiono sui social a commento di qualche stupro o di qualche violenza perpetrata, magari, da uomini di colore? Nessuna. Direi che non si è fatto nessun passo avanti rispetto ai “Vanilla Nightmares” e la “razza” è ancora considerata una aggravante. Con “The Mithyc Being” (1973), Adrian Piper, indossando baffi finti e parrucca, dà vita al suo alter-ego maschile, mettendo in scena una sorta di “strip” con tanto di nuvoletta fatta di fotografie, ma anche di testi, performance. “Das Ding-an-sich bin ich” (ovvero “La cosa in sè sono io”), è un titolo piuttosto impegnativo. Il richiamo è ovviamente al noumeno kantiano. Adrian Piper voleva forse prenderci in giro, poiché pochi visitatori con un cellulare tra le mani davanti ad una serie di specchi, riescono a resistere alla tentazione di scattarsi un selfie (come diceva il sommo Oscar Wilde infatti l’unico modo di liberarsi di una tentazione è cedervi). Se la realtà è diversa oltre a ciò che vediamo (il fenomeno), è evidente che noi non siamo noi, oppure che noi non siamo la nostra immagine, ed è molto plausibile che sia così. L’opera è del 2018 e si suppone che Adrian Piper abbia già potuto considerare che il fenomeno “selfie” avrebbe potuto giocare un ruolo non di secondo piano.

Ben diverse sono comunque le opere della serie “Ur-Mutter” (1989) con la ripetizione di una immagine di coppia madre-figlio africana in condizione di estrema povertà è semplicemente messa confronto con stridenti immagini del benessere americano. La Piper non risparmia una sciabolata polemica verso un mostro sacro dell’arte contemporanea come Jeff Koons, infatti in “Ur-Mutter#8” l’immagine originale è messa a confronto con quella dello stesso Koons che pubblicizza una sua mostra (e la sua stessa immagine) dinnanzi ad una classe di studenti statunitensi di origine europea e asiatica, facenti comunque parte di mondi estranei al continente africano. Vorrei finire questa disamina delle tante opere esposte nella mostra di Milano, con “Pretend” (allusione alla frase idiomatica “Pretend not to know what you know” ovvero “far finta di non sapere ciò che sai”). Una serie di immagini tratte dai mezzi di informazione che documenta il trattamento brutale della polizia verso gli afroamericani. Un’opera di denuncia come si sarebbe detto una volta, che dal 1990 che conserva immutata tutta la sua cruda verità.

Il messaggio di Adrian Piper viene da lontano, da un’epoca in cui l’arte non poteva essere (solo) un esercizio formale, ma un grido di battaglia e si unisce idealmente a quello di tanti altri artisti di quel periodo e di oggi nella lotta interminabile contro il Potere da Mona Hatoum a Tania Bruguera per citare due artiste che amo particolarmente.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Adrain Piper alla Pac di Milano con “Race Traitor”

Nel 2015 la Biennale di Venezia premiò con il Leone d’Oro, Adrain Piper come miglior artista partecipante alla prestigiosa manifestazione. Forse un riconoscimento tardivo, in considerazione del fatto che la sua miglior produzione è relativa agli anni Sessanta e Settanta, tuttavia il premio va visto appunto come una sorta di premio alla carriera. La magnifica mostra al Pac di Milano “Race Traitor”, curata da Diego Sileo, è la prima esposizione dell’opera dell’artista statunitense in Europa (aperta fino al 9 giugno prossimo) ed è una occasione da non mancare, come si dice in questi casi.

Adrian Piper «troppo bianca per i neri, troppo nera per i bianchi», è un artista minimalista, concettuale, ma prima di tutto politica, anche se questa categoria etica ed estetica sembra non esistere più. Ma se entriamo nello specifico, il tratto che contraddistingue la sua opera è certamente quello di una fiera militante antirazzista : di lei, e di artisti come lei, ce n’è quanto mai bisogno nelle nostre società malate e minate da questo disturbo della psiche umana.

Nella grande sala d’ingresso al Pac i primi lavori della Piper degli anni Sessanta, tra queste la celebre “Barbara Epstein with Doll”, con la bambola (a tre dimensioni) che sconfina dalla tela la (prevedibilmente) coloratissima “LSD Self-Portrait from the Inside Out”. Magnifica la serie di “Concrete Infinite Documentation Piece”, diario fotografico (uno scatto al giorno) con un progressivo oscuramento dell’immagine. Ma sono certamente le opere che hanno come oggetto la discriminazione razziale le più significative e che definiscono la cifra stilistica dell’artista. Qui, dovendo scegliere di commentare qualche opera non c’è davvero che l’imbarazzo della scelta: tra le opere più importanti ed esteticamente pregevoli dell’esposizione di Adrian Piper è la serie “Decide Who You Are”.

Nel 1991 la stampa statunitense si occupò del caso di Anita Hill, una giovane avvocata afroamericana che testimoniò di aver subito molestie sessuali da Clarence Thomas, giudice afroamericano, nominato alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il dibattito mediatico, che ebbe anche risvolti razzisti, arrivò a travisare la posizione della vittima, facendone una seduttrice, e il caso fu tra gli eventi che innescarono l’avvio della terza ondata del femminismo internazionale. La fotografia della Hill, all’età di 8 anni, sovraimpressa a un testo in cui la Piper riporta commenti censori, è l’elemento costante nella serie “Decide Who You Are” del 1992. Si tratta di una composizione di pannelli, alla cui base ritroviamo ancora la struttura della griglia, in cui a destra c’è sempre la Hill mentre a sinistra si trovano un disegno ingrandito delle tre scimmiette (realizzato dall’artista) e un testo variabile riguardante razzismo, sessismo ecc.

Tra questi due pannelli laterali sono disposte di volta in volta immagini riprese dai giornali il cui contenuto si riferisce al testo di sinistra. All’inizio degli anni Novanta, legata alla malattia della madre ecco “Am Some Body, The Body of My Friends” (1992-95), nel quale l’artista si scatta delle fotografie insieme ad amici e persone che la fanno stare bene. Nel 1995 il MOCA di Los Angeles organizza la mostra “1965-1975: Reconsidering the Object of Art”. In quell’occasione la Piper presenta “Ashes to Ashes”, un’opera che viene rifiutata (sponsor della mostra era la Philip Morris) dedicata alla memoria della madre, Olive Xavier Smith Piper, nella quale la Piper mette in evidenza i danni letali che il fumo da sigaretta ha provocato nella vita dei suoi genitori. Trovo assolutamente dirompenti e molto efficaci le opere della serie “Vanilla Nightmare”, interventi a matita e carboncino sulle pagine de “The New York Times” e realizzate tra il 1986 e il 1989.

In una delle più efficaci, una sensualissima donna si lascia travolgere dalla fragranza di “Poison”, profumo della Maison Dior, mentre alle sue spalle alcuni afroamericani cercano (vampirescamente) di abusare di lei. Che differenza c’è tra quest’opera di Adrian Piper e gli insulti razzisti che compaiono sui social a commento di qualche stupro o di qualche violenza perpetrata, magari, da uomini di colore? Nessuna. Direi che non si è fatto nessun passo avanti rispetto ai “Vanilla Nightmares” e la “razza” è ancora considerata una aggravante. Con “The Mithyc Being” (1973), Adrian Piper, indossando baffi finti e parrucca, dà vita al suo alter-ego maschile, mettendo in scena una sorta di “strip” con tanto di nuvoletta fatta di fotografie, ma anche di testi, performance. “Das Ding-an-sich bin ich” (ovvero “La cosa in sè sono io”), è un titolo piuttosto impegnativo. Il richiamo è ovviamente al noumeno kantiano. Adrian Piper voleva forse prenderci in giro, poiché pochi visitatori con un cellulare tra le mani davanti ad una serie di specchi, riescono a resistere alla tentazione di scattarsi un selfie (come diceva il sommo Oscar Wilde infatti l’unico modo di liberarsi di una tentazione è cedervi). Se la realtà è diversa oltre a ciò che vediamo (il fenomeno), è evidente che noi non siamo noi, oppure che noi non siamo la nostra immagine, ed è molto plausibile che sia così. L’opera è del 2018 e si suppone che Adrian Piper abbia già potuto considerare che il fenomeno “selfie” avrebbe potuto giocare un ruolo non di secondo piano.

Ben diverse sono comunque le opere della serie “Ur-Mutter” (1989) con la ripetizione di una immagine di coppia madre-figlio africana in condizione di estrema povertà è semplicemente messa confronto con stridenti immagini del benessere americano. La Piper non risparmia una sciabolata polemica verso un mostro sacro dell’arte contemporanea come Jeff Koons, infatti in “Ur-Mutter#8” l’immagine originale è messa a confronto con quella dello stesso Koons che pubblicizza una sua mostra (e la sua stessa immagine) dinnanzi ad una classe di studenti statunitensi di origine europea e asiatica, facenti comunque parte di mondi estranei al continente africano. Vorrei finire questa disamina delle tante opere esposte nella mostra di Milano, con “Pretend” (allusione alla frase idiomatica “Pretend not to know what you know” ovvero “far finta di non sapere ciò che sai”). Una serie di immagini tratte dai mezzi di informazione che documenta il trattamento brutale della polizia verso gli afroamericani. Un’opera di denuncia come si sarebbe detto una volta, che dal 1990 che conserva immutata tutta la sua cruda verità.

Il messaggio di Adrian Piper viene da lontano, da un’epoca in cui l’arte non poteva essere (solo) un esercizio formale, ma un grido di battaglia e si unisce idealmente a quello di tanti altri artisti di quel periodo e di oggi nella lotta interminabile contro il Potere da Mona Hatoum a Tania Bruguera per citare due artiste che amo particolarmente.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.