Metafisica concreta

Si potrebbe cominciare dalla fine di questo poderoso e favoloso volume di Massimo Cacciari (Adelphi 2024) per cercare di ricostruire le intenzioni del grande filosofo che nelle oltre quattrocento pagine di disamina dipana una imbrigliatissima matassa come quella della metafisica nella storia del pensiero Dalla rubrica Chez Mimich

Si potrebbe cominciare dalla fine di questo poderoso e favoloso volume di Massimo Cacciari (Adelphi 2024) per cercare di ricostruire le intenzioni del grande filosofo che nelle oltre quattrocento pagine di disamina dipana una imbrigliatissima matassa come quella della metafisica nella storia del pensiero. La metafisica sembra indispensabile per ricercare quel senso dei diversi saperi e per mostrare la possibilità che il ‘logòs’ di ciascuno possa essere ‘philia’ del comunicare e ‘co-scienza’, che il divino è il colloquio. Tutto apparentemente abbastanza semplice, ma partire dai risultati fa perdere tutto il profondissimo argomentare dell’autore che è quanto di più soddisfacente ci sia per chi sa apprezzare le conseguenzialità del pensiero pur nella loro complessità concettuale e linguistica. Si era partiti quattrocento pagine prima con una citazione (non del tutto inaspettata) dall’evangelista Giovanni: “Nos adoramus quod scimus” ovvero “Noi adoriamo ciò che sappiamo”.

Ma per far questo Cacciari intraprende una ricostruzione concettuale dell’essente, cioè di chi esperisce il mondo o meglio di chi si trova ad esperire ‘L’esserci’ per usare una terminologia heideggeriana. L’essente non è mortale, questo uno degli assunti dai quali Cacciari procede affermando che mortali sono coloro che credono mortale l’essente. L’immortalità dell’essente (che possiamo chiamare anche ‘anima’, ‘spirito’ o magari ‘coscienza’), si realizza nella trasformazione, cioè nell’abbondonare un abito per indossarne un altro. L’origine della interrogazione dell’essente sul suo vivere ed agire (e del suo morire fisico), nasce secondo Cacciari dal “thauma” ovvero, nell’accezione greca (e aristotelica) dallo stupore panico.

Ma la critica di Cacciari ad un concetto di scienza autoreferente, si manifesta subito; si legge infatti nel testo che “credere di possedere la cosa quando non si posseggono che i termini con i quali la rappresentiamo” sposando così, parzialmente, le convinzioni kantiane e le fondamentali intuizioni su realtà fenomenica e nuomenica. Ma, naturalmente, la riflessione non si ferma qui, anzi Kant è la base di partenza per arrivare ad una complessa argomentazione filologico-filosofica sull’essenza dell’essente e sul “Tutto” che necessariamente (anche sulla scorta della filosofia di Leibnitz) non può non contenere che il “Possibile” e “l’Impossibile”, finitezza ideale dello stesso possibile (pena la contraddittorietà del concetto stesso di ‘Possibile’).

Scrive infatti Cacciari: “L’essenza dell’essente consiste nel suo congiungersi al Tutto; mortali sono coloro che credono mortale l’essente, che non sanno distaccarsi dall’apparenza” (pagina 55). E’ pertanto evidente che l’intelletto è mosso dal suo oggetto, ovvero l’intellegibile. Una pericolosa illusione ottica nella concezione di questa elaborazione teorica potrebbe essere costituita dal “Tempo” (che consuma il tutto come avrebbe detto Michelangelo). Ma la vita della “Causa” (ovvero il fine ultimo a cui tendono tutte le cose nelle loro mutevoli forme), avendo nel Tempo un limite invalicabile, va concepita come pensiero, eterna ora della “perfetta coincidenza tra pensiero e pensato”, meravigliosa condizione che la vita reale può davvero realizzare allorché il pensiero giunge a intuire l’intellegibile eterno”. Sono qui più che evidenti echi del pensiero di Pascal e della sua non troppo paludata “canna pensante”.

Certo è che non occorre ricorrere ad “esoterismi particolari” al di fuori della rivoluzione scientifica ma, come scrive Cacciari “per comprendere se al suo stesso interno si possano individuare critiche epistemologicamente consistenti del paradigma che finirà per dominarla” (pagina 104). Insomma la scienza e il sapere scientifico senza il riferimento a ciò che l’autore designa come “Ente absolute infinitum” potrebbe generarsi come conoscenza indipendente, nessuna “Res” infatti può essere considerata come contenente in sé integralmente la ragione del suo esistere. Non esita Cacciari a chiamare la ‘Sostanza’ autogenerata con il nome Dio. Nessuna sostanza avrebbe in sé il fondamento del proprio apparire come sostiene lo stesso Spinoza. È evidente che il problema non è quello della sua esistenza, ma della necessità che il “Fondo” che la “Sostanza”, benché possa essere coniugata e nominata con vari termini, riporti sempre alla metafisica, in base alla quale, analogamente ai principi razionali, la nostra mente, sola tra tutti i viventi, elabora una scienza della natura che trascende la dimensione meramente empirica. Purtuttavia la metafisica è sempre chiamata a giustificarsi di fronte al tribunale della scienza in uno scambio di ruoli: “non più il metafisico contiene nel suo ambito lo scientifico, ma è quest’ultimo che assume il potere di concedere diritto di cittadinanza al primo, ovviamente a condizione che anche questa sappia legittimarsi in quanto scienza” (pagina 164).

Il conoscere non può essere sola ‘empiria’ e neppure soltanto osservazione-comprensione sulla base di forme a-priori. E su questo Cacciari appare categorico: “La scienza deve iniziare da una estetica trascendentale, dalla costituzione originaria del nostro Dasein. Ma un oggetto potrebbe essere pensato, mai potremmo formarcene un concetto se non disponessimo della capacità di riceverlo e di rappresentarlo” (pagina 176). Il “philosophein” sembra dover rispondere all’aut-aut tra il rigore della dimostrazione scientifica e l’intrascendibile angoscia dell’esserci. Un altro caposaldo del complesso ragionamento cacciariano è certamente quello che potremmo riassumere come l’ambito del possibile (confine che la scienza non può permettersi di superare ma nemmeno di comprendere a fondo senza l’aiuto della metafisica).

L’indicibile, insomma è definito solo dal limite dell’osservabile-misurabile. Cacciari in questo ragionamento fa ricorso anche alle parole di Hanna Arendt che definisce ‘reale’ come il tutto compreso l’infinitamente improbabile. Il mondo reale è tutto ciò che accade e non qualcosa di ‘contenuto in potenza’ in una sua origine. Il tema dell’essente non può eludere il tema della morte: “Chiamo morte soltanto la vita che non vedo” confermando così l’assoluta convinzione del ruolo fondamentale della metafisica e aggiunge “Da dove verrebbe una sola molecola del mio corpo se non fosse sempre esistita?” (pagina 294), ed è la mente che dispone della facoltà di impedire o ritardare l’inevitabile collasso del corpo che la contiene e il testo lo dice chiaramente (e poeticamente): “Il corpo dei fotoni, come ogni altro, deve decadere, ma la sua decadenza è riassorbita nella stessa Energia che li ha prodotti…” (pagina 324). Del resto lo stesso Heidegger affermava che “l’esserci incontra la propria morte come l’estrema possibilità di se stesso”.

E la casistica dei sostenitori di una “metafisica concreta” si estende anche molti altri pensatori fino ad arrivare ad Emanuele Severino (di cui nella stessa collana Adelphi fu pubblicato nel 2007 l’incommensurabile “Oltrepassare”). Il sapere certo (‘epistéme’) quello sul quale si basano i paradigmi delle scienze esatte, anzi quelli creati appunto dalle scienze esatte, non riescono a dar conto di quell’Uno, o meglio quello ’s-fondo’ come lo chiama Cacciari, che altro non è che la conoscenza trascendente non raggiungibile nemmeno attraverso la conoscenza intuitiva (‘noesis’ per usare il termine greco). La via maestra per arrivare a questa conoscenza fondamentale e fondante è quella metafisica. La conclusione della disamina cacciariana è perentoria e condivisibile: “L’esperienza dello ‘scientifico’ è un cammino di approssimazione che non esclude affatto precisione ed esattezza.

La vera metafisica è essenzialmente solidale con questo cammino; essa non fa che interrogarlo sulla sua ragion d’essere, sulla sua origine, sulla sua destinazione. Da tale interrogazione possono sorgere, e sono sorte, intuizioni e scoperte determinanti nello sviluppo degli stessi saperi particolari…”

Un volume sul quale vale la pena soffermarsi per metodo, profondità ed erudizione. Una prova di lettura molto impegnativa ma che come per la letteratura “radice amaras, fructus dulcis”.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Metafisica concreta

Si potrebbe cominciare dalla fine di questo poderoso e favoloso volume di Massimo Cacciari (Adelphi 2024) per cercare di ricostruire le intenzioni del grande filosofo che nelle oltre quattrocento pagine di disamina dipana una imbrigliatissima matassa come quella della metafisica nella storia del pensiero
Dalla rubrica Chez Mimich

Si potrebbe cominciare dalla fine di questo poderoso e favoloso volume di Massimo Cacciari (Adelphi 2024) per cercare di ricostruire le intenzioni del grande filosofo che nelle oltre quattrocento pagine di disamina dipana una imbrigliatissima matassa come quella della metafisica nella storia del pensiero. La metafisica sembra indispensabile per ricercare quel senso dei diversi saperi e per mostrare la possibilità che il ‘logòs’ di ciascuno possa essere ‘philia’ del comunicare e ‘co-scienza’, che il divino è il colloquio. Tutto apparentemente abbastanza semplice, ma partire dai risultati fa perdere tutto il profondissimo argomentare dell’autore che è quanto di più soddisfacente ci sia per chi sa apprezzare le conseguenzialità del pensiero pur nella loro complessità concettuale e linguistica. Si era partiti quattrocento pagine prima con una citazione (non del tutto inaspettata) dall’evangelista Giovanni: “Nos adoramus quod scimus” ovvero “Noi adoriamo ciò che sappiamo”.

Ma per far questo Cacciari intraprende una ricostruzione concettuale dell’essente, cioè di chi esperisce il mondo o meglio di chi si trova ad esperire ‘L’esserci’ per usare una terminologia heideggeriana. L’essente non è mortale, questo uno degli assunti dai quali Cacciari procede affermando che mortali sono coloro che credono mortale l’essente. L’immortalità dell’essente (che possiamo chiamare anche ‘anima’, ‘spirito’ o magari ‘coscienza’), si realizza nella trasformazione, cioè nell’abbondonare un abito per indossarne un altro. L’origine della interrogazione dell’essente sul suo vivere ed agire (e del suo morire fisico), nasce secondo Cacciari dal “thauma” ovvero, nell’accezione greca (e aristotelica) dallo stupore panico.

Ma la critica di Cacciari ad un concetto di scienza autoreferente, si manifesta subito; si legge infatti nel testo che “credere di possedere la cosa quando non si posseggono che i termini con i quali la rappresentiamo” sposando così, parzialmente, le convinzioni kantiane e le fondamentali intuizioni su realtà fenomenica e nuomenica. Ma, naturalmente, la riflessione non si ferma qui, anzi Kant è la base di partenza per arrivare ad una complessa argomentazione filologico-filosofica sull’essenza dell’essente e sul “Tutto” che necessariamente (anche sulla scorta della filosofia di Leibnitz) non può non contenere che il “Possibile” e “l’Impossibile”, finitezza ideale dello stesso possibile (pena la contraddittorietà del concetto stesso di ‘Possibile’).

Scrive infatti Cacciari: “L’essenza dell’essente consiste nel suo congiungersi al Tutto; mortali sono coloro che credono mortale l’essente, che non sanno distaccarsi dall’apparenza” (pagina 55). E’ pertanto evidente che l’intelletto è mosso dal suo oggetto, ovvero l’intellegibile. Una pericolosa illusione ottica nella concezione di questa elaborazione teorica potrebbe essere costituita dal “Tempo” (che consuma il tutto come avrebbe detto Michelangelo). Ma la vita della “Causa” (ovvero il fine ultimo a cui tendono tutte le cose nelle loro mutevoli forme), avendo nel Tempo un limite invalicabile, va concepita come pensiero, eterna ora della “perfetta coincidenza tra pensiero e pensato”, meravigliosa condizione che la vita reale può davvero realizzare allorché il pensiero giunge a intuire l’intellegibile eterno”. Sono qui più che evidenti echi del pensiero di Pascal e della sua non troppo paludata “canna pensante”.

Certo è che non occorre ricorrere ad “esoterismi particolari” al di fuori della rivoluzione scientifica ma, come scrive Cacciari “per comprendere se al suo stesso interno si possano individuare critiche epistemologicamente consistenti del paradigma che finirà per dominarla” (pagina 104). Insomma la scienza e il sapere scientifico senza il riferimento a ciò che l’autore designa come “Ente absolute infinitum” potrebbe generarsi come conoscenza indipendente, nessuna “Res” infatti può essere considerata come contenente in sé integralmente la ragione del suo esistere. Non esita Cacciari a chiamare la ‘Sostanza’ autogenerata con il nome Dio. Nessuna sostanza avrebbe in sé il fondamento del proprio apparire come sostiene lo stesso Spinoza. È evidente che il problema non è quello della sua esistenza, ma della necessità che il “Fondo” che la “Sostanza”, benché possa essere coniugata e nominata con vari termini, riporti sempre alla metafisica, in base alla quale, analogamente ai principi razionali, la nostra mente, sola tra tutti i viventi, elabora una scienza della natura che trascende la dimensione meramente empirica. Purtuttavia la metafisica è sempre chiamata a giustificarsi di fronte al tribunale della scienza in uno scambio di ruoli: “non più il metafisico contiene nel suo ambito lo scientifico, ma è quest’ultimo che assume il potere di concedere diritto di cittadinanza al primo, ovviamente a condizione che anche questa sappia legittimarsi in quanto scienza” (pagina 164).

Il conoscere non può essere sola ‘empiria’ e neppure soltanto osservazione-comprensione sulla base di forme a-priori. E su questo Cacciari appare categorico: “La scienza deve iniziare da una estetica trascendentale, dalla costituzione originaria del nostro Dasein. Ma un oggetto potrebbe essere pensato, mai potremmo formarcene un concetto se non disponessimo della capacità di riceverlo e di rappresentarlo” (pagina 176). Il “philosophein” sembra dover rispondere all’aut-aut tra il rigore della dimostrazione scientifica e l’intrascendibile angoscia dell’esserci. Un altro caposaldo del complesso ragionamento cacciariano è certamente quello che potremmo riassumere come l’ambito del possibile (confine che la scienza non può permettersi di superare ma nemmeno di comprendere a fondo senza l’aiuto della metafisica).

L’indicibile, insomma è definito solo dal limite dell’osservabile-misurabile. Cacciari in questo ragionamento fa ricorso anche alle parole di Hanna Arendt che definisce ‘reale’ come il tutto compreso l’infinitamente improbabile. Il mondo reale è tutto ciò che accade e non qualcosa di ‘contenuto in potenza’ in una sua origine. Il tema dell’essente non può eludere il tema della morte: “Chiamo morte soltanto la vita che non vedo” confermando così l’assoluta convinzione del ruolo fondamentale della metafisica e aggiunge “Da dove verrebbe una sola molecola del mio corpo se non fosse sempre esistita?” (pagina 294), ed è la mente che dispone della facoltà di impedire o ritardare l’inevitabile collasso del corpo che la contiene e il testo lo dice chiaramente (e poeticamente): “Il corpo dei fotoni, come ogni altro, deve decadere, ma la sua decadenza è riassorbita nella stessa Energia che li ha prodotti…” (pagina 324). Del resto lo stesso Heidegger affermava che “l’esserci incontra la propria morte come l’estrema possibilità di se stesso”.

E la casistica dei sostenitori di una “metafisica concreta” si estende anche molti altri pensatori fino ad arrivare ad Emanuele Severino (di cui nella stessa collana Adelphi fu pubblicato nel 2007 l’incommensurabile “Oltrepassare”). Il sapere certo (‘epistéme’) quello sul quale si basano i paradigmi delle scienze esatte, anzi quelli creati appunto dalle scienze esatte, non riescono a dar conto di quell’Uno, o meglio quello ’s-fondo’ come lo chiama Cacciari, che altro non è che la conoscenza trascendente non raggiungibile nemmeno attraverso la conoscenza intuitiva (‘noesis’ per usare il termine greco). La via maestra per arrivare a questa conoscenza fondamentale e fondante è quella metafisica. La conclusione della disamina cacciariana è perentoria e condivisibile: “L’esperienza dello ‘scientifico’ è un cammino di approssimazione che non esclude affatto precisione ed esattezza.

La vera metafisica è essenzialmente solidale con questo cammino; essa non fa che interrogarlo sulla sua ragion d’essere, sulla sua origine, sulla sua destinazione. Da tale interrogazione possono sorgere, e sono sorte, intuizioni e scoperte determinanti nello sviluppo degli stessi saperi particolari…”

Un volume sul quale vale la pena soffermarsi per metodo, profondità ed erudizione. Una prova di lettura molto impegnativa ma che come per la letteratura “radice amaras, fructus dulcis”.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.