Se volessimo ricordare Pino Pascali con una sola immagine io credo che molti di noi sceglierebbero uno dei suoi famosi “Bachi da setola” del 1968. Perché è proprio nell’aspetto ludico, ironico e un po’ svagato che risiede quel “quid” della creatività del grande artista barese, uno dei protagonisti della vicenda della Pop Art italiana prima e della cosiddetta “Arte povera” poi, artista al quale la Fondazione Prada rende omaggio con una mostra completa e molto accattivante, aperta fino al prossimo 23 settembre. I “Bachi da setola” sono certamente quanto di più vicino ad una concezione pop dell’arte e anche della vita.
Una breve vita quella di Pino Pascali, scomparso giovane a seguito di un incidente di motocicletta. Complessa l’architettura espositiva della mostra che presenta quattro sezioni: la prima intitolata “Mostre personali” (nel Podium al piano terra), la seconda, “Materiali” (al primo piano del Podium), la terza dedicata alla fotografia (nella Galleria Sud) ed infine “Mostre collettive” (nella Galleria Nord). Insomma qui si trova praticamente tutta o quasi la produzione di Pascali. Nella prima parte, molto interessanti le ricostruzioni simboliche delle gallerie e anche del padiglione della Biennale di Venezia del 1968, con le installazioni delle opere, posizionate come in origine a cominciare dalla galleria La Tartaruga di Piazza Navona a Roma, dove Pascali espose nel 1965, tra le altre opere, le straordinarie labbra rosse, un po’ wesselmaniane, “Omaggio a Billie Holiday del 1964 e il magnifico “Colosseo” di panno e tela su legno, un’opera che sembra addirittura anticipare le figurazione della Transavaguardia. Straordinario il “Teatrino” (esposto alla Libreria Feltrinelli di Roma) che alludeva alla vita (ir)reale degli oggetti nei primi spot pubblicitari (che erano già in quegli anni qualcosa di diverso dalle “réclame”).
Nel 1966 Pascali espone da Sperone a Torino, dove sulla scorta delle opere di Roberto Rauschenberg, presenta una serie di armi immaginarie fatte assemblando pezzi di tubi, marchingegni in legno dipinti di nero e molto verosimili: tra queste, missile “Colomba della pace” rivolto verso il pavimento in una controsignificanza di potente effetto. Nella primavera del 1968 presso la Galleria L’attico, insieme ai già citati “Bachi da setola”, l’artista espone una serie di opere di un materiale relativamente nuovo, la lana d’acciaio. Tra queste, di grande grande impatto è certamente “Il Ponte” (1968) del MoMa di New York. Nella sezione “Materiali”, sempre in lana di acciaio, “L’Arco di Ulisse”, gigantesco e cupo sembra anch’esso rimandare a quella allusività all’arte classica che sarà propria, come già detto, di una fetta della Transavanguardia (come ad esempio in Mimmo Paladino).
Di questa sezione fanno tuttavia parte anche opere più strettamente concettuali come le trenta lastre di Eternit (allora un materiale nuovo ed innovativo), con terra applicata e vasche di irrigazione di “Campi arati e canali di irrigazione” del 1967. La fotografia riunita nella Galleria Sud, riserva non poche sorprese, a cominciare dalla famosa foto di Ugo Mulas scattata per “L’Uomo Vogue” nel 1968 ed intitolata “Pino Pascali con cavalletto”, ove in realtà il cavalletto non è certo il consueto “cavalletto da pittore”, ma da un’opera dello stesso Pascali intitolata “Cavalletto” una struttura a capanna con tessuti e pelli realizzati dall’artista. Certamente da annoverare tra gli scatti più iconici (e il termine non è usato a sproposito come purtroppo s’usa fare oggi), quello del fotografo Claudio Abate che ritrae Pascali a testa in giù nell’intento di simulare la forma assunta dal gigantesco ragno intitolato “Vedova Blu” ed esposto nelle stessa sala della Galleria Sud. Con Luca Patella, Pascali collaborò a lungo a testimonianza del suo forte legame con la fotografia d’arte, più forma diaristico-documentaria, che non performance. L’ultima parte della mostra, dedicata alle mostre collettiva alle quali Pino Pascali collaborò, sembra essere quella un po’ più pretestuosa, benché in essa siano esposti lavori di artisti quali Mario Ceroli, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Gianni Piacentino e altri.
Sembra essere un po’ una appendice didattico-illustrativa sulla fine degli anni Sessanta e in particolare un tributo simbolico al Movimento dell’Arte Povera al quale, per una parte della sua breve carriera, Pascali aderì. Nel complesso una mostra molto esauriente, negli spazi sempre affascinanti della Fondazione.