«Il mio caso non è tra le priorità. Temo per la mia vita, rischio di essere ucciso. Una decisione presa dalle autorità iraniane sette mesi fa ha soltanto confermato le mie paure. Sono stato abbandonato nel mezzo di una situazione terribile, con il rischio imminente di esecuzione». Sono le parole che Ahmad Djalali ha inviato ieri, 14 gennaio, in occasione del suo 53esimo compleanno, dal carcere iraniano di Evin in un disperato appello alla comunità internazionale affinché si mobiliti per consentire il suo ritorno a Stoccolma dove vive la famiglia.
Il messaggio è stato diffuso da Amnesty International Italia nel tentativo, l’ennesimo, di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione di Djajali, tornata alla ribalta dopo la vicenda, fortunatamente con tutt’altro esito, della giornalista italiana Cecilia Sala, detenuta per 21 giorni nello stesso carcere di Evin e poi liberata l’8 gennaio.
A questo link è possibile ascoltare il messaggio completo con la voce di Ahmad.
Il ricercato dell’Upo, con doppia nazionalità svedese-iraniana, è stato arrestato nel 2016 con false accuse e condannato a morte dal 2017: dopo aver trascorso buona parte della prima metà dello scorso decennio a Novara, nel Dipartimento di Medicina dei disastri, nel 2016 accettò un invito a recarsi in Iran: un’occasione per rivedere parte della sua famiglia. Viveva e conduceva le sue ricerche in Europa, tra Stoccolma, in Svezia – dove risiedono la moglie e i loro due figli –, Lovanio, in Belgio, e, appunto, Novara. Quella che sembrava essere un’opportunità, però, si è rivelata una trappola.
Djalali è rinchiuso nel braccio della morte da quasi otto anni, condannato in via definitiva all’impiccagione un anno dopo il suo arresto, avvenuto il 25 aprile 2016, sulla base della falsa accusa di spionaggio verso Israele.
«Accettando la cosiddetta “politica degli ostaggi” iraniana – spiegano da Amnesty – nel giugno 2024 il governo svedese ha negoziato il ritorno in patria di due suoi cittadini detenuti: un funzionario dell’Unione europea e un cittadino in condizioni di salute precarie. Djalali, tuttavia, è stato escluso da questo “scambio”, attraverso il quale è stato invece rimpatriato in Iran Hamid Nouri, condannato in via definitiva all’ergastolo per il ruolo avuto nel massacro delle prigioni del 1988».
Infine l’appello: «Anche alla luce del drammatico messaggio proveniente da Evin, Amnesty International Italia esorta le autorità italiane ad agire per ottenere al più presto l’annullamento della condanna a morte di Djalali e la sua liberazione, consentendo il suo immediato ritorno in Svezia».