Nel corso della sua ormai lunga storia, la ricorrenza del 25 Aprile è stata sovente al centro di tensioni e controversie, sempre strettamente dipendenti dalle dinamiche che hanno caratterizzato il sistema politico italiano e il suo rapporto con la società nelle diverse fasi della vicenda repubblicana. Certo, la pluralità di piani e prospettive, storie e tradizioni – non necessariamente riconducibili all’interno della sfera politica, perché la visione totalitaria della società propria del fascismo e del nazismo non poteva che entrare in conflitto con la maggior parte dei gruppi e dei soggetti che agiscono e si organizzano nelle molteplici sfere in cui si esplica l’esperienza umana, a cominciare da quella strettamente individuale – che confluiscono nella celebrazione della festa della liberazione sono per loro stessa natura destinate a dare forma ad accenti e sensibilità diverse, suscettibili quindi di far sorgere punti di contrasto, ma l’impressione che non si sia mai veramente riusciti a trovare una misura in grado di comporle in una visione complessiva e sufficientemente condivisa ha costantemente accompagnato nel corso degli anni una delle date simbolo della nostra comunità nazionale. Ed è molto probabile che questa ambiguità di fondo abbia contribuito non poco a generare diffidenza ed estraneità in larga parte del paese, quando non addirittura aperta ostilità, e non necessariamente tra i nostalgici del passato regime, che pure continuano imperterriti a coltivare le proprie convinzioni, anche se appartengono a generazioni che, per loro immeritata fortuna, hanno ampiamente goduto delle libertà democratiche. Una ambiguità che è in larga misura conseguenza della diversa natura delle culture politiche che convivono nel nostro paese e del valore che ciascuna di esse assegna alla democrazia liberale e, di conseguenza, del differente giudizio che dànno delle istituzioni e delle politiche con le quali gli stati democratici hanno dato vita nel secondo dopoguerra all’ordine liberale nell’arena internazionale, garanzia della loro possibilità di continuare a esistere in un ambiente fatalmente ostile per la presenza di numerosi stati autocratici.
Quest’anno sono state le inopinate e sconcertanti posizioni assunte dal presidente nazionale dell’Anpi – o dall’associazione nel suo complesso? oggettivamente a oggi la questione non è ancora molto chiara – circa la valutazione della guerra di aggressione scatenata dalla Federazione Russa contro lo stato sovrano e democratico dell’Ucraina e, soprattutto, circa la posizione che deve tenere il nostro Paese riguardo a quel conflitto ad avere generato tensioni e dissensi. E mai come quest’anno, quindi, credo sia indispensabile chiedersi che cosa vogliamo festeggiare il 25 Aprile. Intendo non solo che cosa vogliamo festeggiare come singoli o gruppi associati, ma proprio come nazione, come comunità politica, e quali sono i valori su cui intendiamo fondare la nostra azione all’interno delle comuni istituzioni democratiche e, in ultima istanza, che cosa ci tiene insieme come popolo, su quali aspirazioni e progetti per il futuro riposa la nostra convivenza civile.
È stato il primo ministero De Gasperi a decidere di istituire una festa nazionale per celebrare il primo anniversario della liberazione e di fissarla il 25 aprile, decisione che venne adottata da Umberto II con il Decreto Legislativo Luogotenenziale 22 aprile 1946, n. 185. L’obiettivo principale che De Gasperi si proponeva con questa decisione era quello di mettere in luce il ruolo attivo svolto dalle forze politiche italiane raccolte nel Cln nel sostenere la guerra condotta dagli Alleati sul fronte italiano, enfatizzando nello stesso tempo, attraverso la denominazione della celebrazione “festa della liberazione”, l’adesione agli scopi di guerra degli Alleati stabiliti con la Carta Atlantica concordata da Roosevelt e Churchill il 14 agosto del 1941 sull’isola di Terranova, per influire sulla definizione del trattato di pace. Il 25 aprile del 1945, infatti, è il giorno in cui il Cln Alta Italia proclamò l’insurrezione generale, invitando gli italiani a mobilitarsi attivamente contro la forza di occupazione tedesca; mentre la fine della guerra ebbe luogo soltanto alle 14.00 del 2 maggio successivo, secondo quanto era stato stabilito dal documento di resa incondizionata firmato dai tedeschi nella reggia di Caserta, sede del quartier generale alleato, il 29 aprile. La ricorrenza venne resa permanente soltanto tre anni dopo con la legge 27 maggio 1949, n. 260, che, peraltro, istituiva quale festa nazionale il 2 giugno, anniversario del referendum istituzionale che stabilì la forma di governo repubblicana.
Come sappiamo, l’obiettivo del governo De Gasperi di valorizzare il contributo italiano nella lotta all’occupazione tedesca non venne raggiunto e il trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio del 1947 fu estremamente punitivo nei confronti di una potenza che si era accodata all’aggressione hitleriana, finendo per soccombere sotto il peso della propria inadeguatezza militare, politica e morale. Trattato di pace che imponeva all’Italia all’articolo 15 di «assicurare a tutte le persone soggette alla sua giurisdizione» senza distinzione alcuna i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e all’articolo 17 di impedire la ricostituzione di organizzazioni fasciste di qualsiasi natura per salvaguardare i diritti democratici del popolo italiano, secondo quanto era già stato previsto dagli articoli 30 e 31 dell’armistizio firmato a Malta da Badoglio nelle mani del generale Eisenhower il 29 settembre del 1943 e ribadito nella conferenza di Mosca dell’ottobre successivo.
Libertà civili e democrazia politica, diritti dell’uomo e procedure democratiche. L’azione di De Gasperi, prima ancora del patto costituzionale, si pose risolutamente in questa prospettiva, non senza dover affrontare contrasti e distinguo, anche all’interno del proprio partito, specie, ma non solo, dei settori più sensibili agli umori della gerarchia cattolica. Azione che raggiunse il suo culmine quando il progressivo deteriorarsi del quadro di convivenza pacifica tra stati immaginato con la dichiarazione delle Nazioni Unite del 1° gennaio 1942 convinse le principali democrazie a firmare il 4 aprile del 1949 a Washington il Trattato dell’Atlantico del Nord, che raccoglieva l’eredità dei princìpi dell’ordine liberale espressi nella Carta atlantica. In un mondo nuovamente ostile per le democrazie, le democrazie decidevano di stipulare un patto per proteggere le loro istituzioni e i valori liberali e democratici che le fondano, oltre che per legarsi in modo permanente tra di loro, rafforzando i vincoli di collaborazione. Con tenacia e lungimiranza, De Gasperi riuscì a far sì che l’Italia fosse accolta tra i firmatari del patto, anche se non era stata ancora ammessa a far parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma se l’azione del governo De Gasperi era riuscita ad ancorare l’Italia ai princìpi delle democrazie liberali, altra questione era – ed è – l’adesione delle forze politiche e, soprattutto delle culture politiche di cui erano – e sono – espressione, a quel nucleo di valori. Mi pare che questa rimanga la questione centrale che ancora ci interroga, perché mi sembra del tutto evidente che i capziosi distinguo su come affrontare le autocrazie non siano nient’altro che il riflesso di questa valutazione. Che siano mossi dalla nostalgia delle democrazie popolari o da concezioni pacifiste eredi dei movimenti degli anni ottanta, dall’irresistibile attrazione per i modelli sovranisti che comprimono la componente liberale delle democrazie o da visioni che profeticamente si pongono al di fuori della storia, hanno tutti in comune una sorda ostilità, o quanto meno una profonda insofferenza, nei confronti dei princìpi del liberalismo politico.
E allora: che valore assegniamo alla democrazia liberale? Riteniamo indispensabili i vincoli che pone a protezione delle libertà individuali, fondando inevitabili diseguaglianze che entrano in tensione permanente con il principio dell’eguaglianza politica, richiedendo continui interventi per mantenere in equilibrio il sistema, sulla cui natura c’è permanente disaccordo? Consideriamo un’acquisizione qualificante della nostra storia la conseguente assunzione dell’irreversibilità del princìpio del pluralismo politico, e della competizione che naturalmente gli è associata, che riconosce l’esistenza di punti di visti irriducibili e dunque fissa nell’accordo sulle procedure il fondamento della democrazia politica? Insomma, in nome di cosa sono stati combattuti il fascismo e le sue aspirazioni totalitarie? In un magistrale articolo pubblicato sulla “Stampa” il 25 aprile del 1994, un lunedì come oggi, Norberto Bobbio, dopo aver argomentato in modo stringente ed efficace l’assoluta incompatibilità tra la democrazia liberale e il fascismo, concludeva che se tutti i democratici sono per forza antifascisti, non basta essere antifascisti per essere democratici. Parafrasando Vittorini, aveva intitolato l’articolo Democratici e no. Il fascismo non è stato combattuto soltanto in nome della democrazia, ma non poteva non essere combattuto per salvaguardare la democrazia. Può essere considerato disperante dover ancora confrontarsi con queste prospettive dopo quasi ottant’anni, ma questo è il tempo che ci è dato di vivere: tra democratici e no.