Mentre ci prepariamo a riprendere gradualmente le nostre usuali attività, anche se non sappiamo ancora bene come e quando, cresce la consapevolezza che la situazione di acuta crisi ha messo in evidenza i punti di forza e di debolezza delle società, e dei relativi sistemi politici, che si sono trovate ad affrontarla. E che, a parità di sfida, i differenti esiti siano stati determinati dalla combinazione di tali punti, virtuosa per alcuni stati, più problematica per altri. E che tale esiti siano stati determinati in misura maggiore dalle variabili strutturali, in termini di solidità delle istituzioni e di grado di coesione sociale, piuttosto che dalle contigenti leadership politiche. Detto in altri termini: nemmeno Pep Guardiola sarebbe in grado di vincere la Champions alla guida del Novara. E ancora di più così sarà nella delicata fase che ci attende.

In questa prospettiva, risulta di grande interesse l’analisi proposta da Paolo Pombeni nel volume La buona politica, uscito lo scorso anno per i tipi del Mulino, dedicata alle difficoltà in cui si dibatte la società italiana da ormai un trentennio, incapace come sembra di darsi un assetto coerente con i nuovi scenari che si vanno delineando. Il pregio del lavoro di Pombeni, il nostro più brillante studioso di storia politica e istituzionale europea contemporanea, è quello di utilizzare un approccio sistemico, connettendo il sistema politico alle articolazioni sociali, sullo sfondo di una convincente interpretazione storica.

 

 

A partire da due intuizioni di carattere più generale. La prima è che gli eventi che siamo soliti sintetizzare con la locuzione “il sessantotto” – cui Pombeni ha dedicato l’illuminante saggio Che cosa resta del ’68, sempre per i tipi del Mulino – hanno messo in evidenza l’esaurirsi di una fase storica e dei presupposti su cui si era retta, aprendo una fase di transizione verso nuovi assetti che non si sono ancora fissati. La seconda è che, parallelamente, nell’ultimo trentennio del ventesimo secolo si è affermata la convizione di essere riusciti a fondare definitivamente la sfera politica su basi razionali, non comprendendo, però, all’interno di questa accezione di razionalità la possibilità dell’irrazionale e della sua capacità di minare dall’interno qualsiasi forma di spazio pubblico. Ragion per cui, quando le spinte irrazionali sono tornate a manifestarsi, le società non avevano linguaggi e strumenti per fronteggiarle.

Quando si imbocca quella strada, il richiamo ai fatti diventa inutile; anzi, finisce per rinforzare le spinte demagogiche, oggi imprecisamente definite populiste. Neppure troppo in controluce, si può scorgere in questa osservazione un giudizio severo sulla disinvoltura con cui le scienze politiche hanno ritenuto di poter fare a meno della storia, sostituendo i calcoli razionalisti alle concrete dinamiche umane.

Sullo sfondo di questi processi, che investono, anche se in misura diversa, tutte le società occidentali, Pombeni inserisce un’acuta ricostruzione degli ultimi cinquan’anni storia italiana, il cui filo conduttore è il progressivo affermarsi del radicalismo nella cultura e nella politica italiana, che individua la causa del fallimento delle politiche riformatrici nell’esistenza di una “questione morale”. Infrantanesi l’ultima versione, quella giudiziaria, sul massiccio consenso elettorale per Berlusconi, che a sua volta ne recuperò alcune suggestioni nel suo pragmatico ecclettismo, sono rimaste solo le macerie del totale discredito dell’azione politica.

E ora? Qui entriamo nel cuore del saggio, che con sobrio ottimismo invita a ricostruire una solida ragione politica, unico strumento in grado di permetterci di riprendere il cammino interrotto. Il concetto elaborato da Pombeni poggia su due perni. Il primo è quello di assegnare alla politica la funzione che le compete, senza chiederle di fare quello che non può fare. Si avverte l’eco del pensiero di Bobbio. Il compito primario della ragione è quello di distinguere ciò che si può realizzare da ciò che non si può realizzare. Non si può avere tutto e, soprattutto, non contemporaneamente. Fissati razionalmente gli obiettivi, si tratta di avere la costanza necessaria a raggiungerli.

Non è possibile concepire riforme epocali a ogni legislatura, magari dalla fine anticipata. Sono i tratti fondamentali del government by discussion del costituzionalismo occidentale, per cui la ragione politica è il risultato del confronto tra i soggetti presenti nelle articolazioni della società. Ma questo meccanismo funziona solo sulla base del presupposto – ed è il secondo perno su cui si basa il concetto di ragione politica – che tali articolazioni sociali si pensino come parti di un soggetto comunitario. Distinte e conflittuali, ma tenute insieme da obiettivi comuni, perché la comunità politica si riconosce come tale quando tutte le sue componenti hanno la consapevolezza di non poter fare a meno delle altre e di dover negoziare in modo equo le forme della comune convivenza. Quella che Max Weber definiva “una comunità di destini”.

Molte sono le proposte che Pombeni elabora intorno a questo punto nevralgico e rimandiamo volentieri alla lettura del saggio. Su un ultimo aspetto, però, vorrei ancora soffermarmi, che a me pare decisivo, ancora di più dopo queste lunghe settimane a cui alla sofferenza vera si è sovrapposta la sofferenza cinicamente e inutilmente rappresentata. Elemento insostituibile di qualsiasi sistema democratico è la pubblica opinione, che ne va considerata una vera e propria istituzione.

Ma la pubblica opinione non è la somma di quel che chi ce la fa giungere – anche gli strumenti apparentemente disintermediati, sono strumenti che condizionano la ricezione – secondo le sue non verificabili regole attesta essere “quel che pensa la gente”, men che meno una parata di opinioni più o meno qualificate, che andrebbero lette secondo il classico di Christopher Lasch, The Culture of Narcissism. È viceversa quello che Pombeni definisce «il filtraggio che di quanto emerge dal sentire dei vari strati della società si è in grado di fare per arrivare a proporre letture complessive, le quali possano fornire elementi di sintesi razionale sulla cui base si possa far camminare la cultura di una comunità di destini». Letture complessive, sintesi razionale, cultura di una comunità di destini.

Condividi:

Facebook
WhatsApp
Telegram
Email
Twitter

© 2024 La Voce di Novara - Riproduzione Riservata
Iscrizione al registro della stampa presso il Tribunale di Novara

Picture of Giovanni A. Cerutti

Giovanni A. Cerutti

Condividi l'articolo

SEGUICI SUI SOCIAL

Sezioni

La ragione politica

Mentre ci prepariamo a riprendere gradualmente le nostre usuali attività, anche se non sappiamo ancora bene come e quando, cresce la consapevolezza che la situazione di acuta crisi ha messo in evidenza i punti di forza e di debolezza delle società, e dei relativi sistemi politici, che si sono trovate ad affrontarla. E che, a parità di sfida, i differenti esiti siano stati determinati dalla combinazione di tali punti, virtuosa per alcuni stati, più problematica per altri. E che tale esiti siano stati determinati in misura maggiore dalle variabili strutturali, in termini di solidità delle istituzioni e di grado di coesione sociale, piuttosto che dalle contigenti leadership politiche. Detto in altri termini: nemmeno Pep Guardiola sarebbe in grado di vincere la Champions alla guida del Novara. E ancora di più così sarà nella delicata fase che ci attende.

In questa prospettiva, risulta di grande interesse l’analisi proposta da Paolo Pombeni nel volume La buona politica, uscito lo scorso anno per i tipi del Mulino, dedicata alle difficoltà in cui si dibatte la società italiana da ormai un trentennio, incapace come sembra di darsi un assetto coerente con i nuovi scenari che si vanno delineando. Il pregio del lavoro di Pombeni, il nostro più brillante studioso di storia politica e istituzionale europea contemporanea, è quello di utilizzare un approccio sistemico, connettendo il sistema politico alle articolazioni sociali, sullo sfondo di una convincente interpretazione storica.

 

 

A partire da due intuizioni di carattere più generale. La prima è che gli eventi che siamo soliti sintetizzare con la locuzione “il sessantotto” – cui Pombeni ha dedicato l’illuminante saggio Che cosa resta del ’68, sempre per i tipi del Mulino – hanno messo in evidenza l’esaurirsi di una fase storica e dei presupposti su cui si era retta, aprendo una fase di transizione verso nuovi assetti che non si sono ancora fissati. La seconda è che, parallelamente, nell’ultimo trentennio del ventesimo secolo si è affermata la convizione di essere riusciti a fondare definitivamente la sfera politica su basi razionali, non comprendendo, però, all’interno di questa accezione di razionalità la possibilità dell’irrazionale e della sua capacità di minare dall’interno qualsiasi forma di spazio pubblico. Ragion per cui, quando le spinte irrazionali sono tornate a manifestarsi, le società non avevano linguaggi e strumenti per fronteggiarle.

Quando si imbocca quella strada, il richiamo ai fatti diventa inutile; anzi, finisce per rinforzare le spinte demagogiche, oggi imprecisamente definite populiste. Neppure troppo in controluce, si può scorgere in questa osservazione un giudizio severo sulla disinvoltura con cui le scienze politiche hanno ritenuto di poter fare a meno della storia, sostituendo i calcoli razionalisti alle concrete dinamiche umane.

Sullo sfondo di questi processi, che investono, anche se in misura diversa, tutte le società occidentali, Pombeni inserisce un’acuta ricostruzione degli ultimi cinquan’anni storia italiana, il cui filo conduttore è il progressivo affermarsi del radicalismo nella cultura e nella politica italiana, che individua la causa del fallimento delle politiche riformatrici nell’esistenza di una “questione morale”. Infrantanesi l’ultima versione, quella giudiziaria, sul massiccio consenso elettorale per Berlusconi, che a sua volta ne recuperò alcune suggestioni nel suo pragmatico ecclettismo, sono rimaste solo le macerie del totale discredito dell’azione politica.

E ora? Qui entriamo nel cuore del saggio, che con sobrio ottimismo invita a ricostruire una solida ragione politica, unico strumento in grado di permetterci di riprendere il cammino interrotto. Il concetto elaborato da Pombeni poggia su due perni. Il primo è quello di assegnare alla politica la funzione che le compete, senza chiederle di fare quello che non può fare. Si avverte l’eco del pensiero di Bobbio. Il compito primario della ragione è quello di distinguere ciò che si può realizzare da ciò che non si può realizzare. Non si può avere tutto e, soprattutto, non contemporaneamente. Fissati razionalmente gli obiettivi, si tratta di avere la costanza necessaria a raggiungerli.

Non è possibile concepire riforme epocali a ogni legislatura, magari dalla fine anticipata. Sono i tratti fondamentali del government by discussion del costituzionalismo occidentale, per cui la ragione politica è il risultato del confronto tra i soggetti presenti nelle articolazioni della società. Ma questo meccanismo funziona solo sulla base del presupposto – ed è il secondo perno su cui si basa il concetto di ragione politica – che tali articolazioni sociali si pensino come parti di un soggetto comunitario. Distinte e conflittuali, ma tenute insieme da obiettivi comuni, perché la comunità politica si riconosce come tale quando tutte le sue componenti hanno la consapevolezza di non poter fare a meno delle altre e di dover negoziare in modo equo le forme della comune convivenza. Quella che Max Weber definiva “una comunità di destini”.

Molte sono le proposte che Pombeni elabora intorno a questo punto nevralgico e rimandiamo volentieri alla lettura del saggio. Su un ultimo aspetto, però, vorrei ancora soffermarmi, che a me pare decisivo, ancora di più dopo queste lunghe settimane a cui alla sofferenza vera si è sovrapposta la sofferenza cinicamente e inutilmente rappresentata. Elemento insostituibile di qualsiasi sistema democratico è la pubblica opinione, che ne va considerata una vera e propria istituzione.

Ma la pubblica opinione non è la somma di quel che chi ce la fa giungere – anche gli strumenti apparentemente disintermediati, sono strumenti che condizionano la ricezione – secondo le sue non verificabili regole attesta essere “quel che pensa la gente”, men che meno una parata di opinioni più o meno qualificate, che andrebbero lette secondo il classico di Christopher Lasch, The Culture of Narcissism. È viceversa quello che Pombeni definisce «il filtraggio che di quanto emerge dal sentire dei vari strati della società si è in grado di fare per arrivare a proporre letture complessive, le quali possano fornire elementi di sintesi razionale sulla cui base si possa far camminare la cultura di una comunità di destini». Letture complessive, sintesi razionale, cultura di una comunità di destini.

© 2020-2024 La Voce di Novara
Riproduzione Riservata