Cosa passa per la testa di chi si trova costretto, a vario titolo, a lasciare non tanto, come siamo soliti dire e pensare, la propria terra o la propria patria, ma i propri affetti e le proprie relazioni, il piccolo mondo entro il quale si svolge e acquista significato la vita di ciascuno di noi? Abituati a interrogarci sulle conseguenze che l’arrivo di uomini e donne provenienti da altri paesi in fuga dalla guerra o in cerca di lavoro producono all’interno delle nostre società, raramente ci soffermiamo a pensare quanto lacerante sia quella decisione, che nasce sempre dall’impossibilità di rimanere dove si vorrebbe rimanere; quali traumi porta con sé, anche senza dover aggiungere l’ostilità, che ormai è arrivata al parossismo isterico, di chi si sente minacciato, anche se è molto difficile comprendere esattamente da cosa.
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E dire che siamo un paese che fino a non molti anni fa reggeva la sua economia sull’emigrazione come fattore strutturale e si può dire non ci sia famiglia, anche nell’opulento e ormai irriconoscibile nord-ovest, che non abbia qualche ramo sparso in giro per l’Europa o l’America. Non dovrebbe essere troppo complicato trovare in qualche cassetto o in qualche soffitta polverosi racconti di soprusi e di infinita nostalgia.
Una straordinaria opportunità di compiere questo viaggio nel dolore che nasce dal senso di inadeguatezza, dalla sensazione di essere sempre fuori posto, e, prima ancora, di prendere coscienza di quanto sia parziale e inconcludente la percezione che abbiamo dei fenomeni migratori, ci viene offerta da un prezioso libro di Francesca Rigotti “Migranti per caso. Una vita da expat” (Raffello Cortina Editore). Libro dopo libro, la Rigotti – come non riesco a non scrivere unicamente in virtù delle ascendenze lombarde del mio dialetto – si è affermata come una delle voci più interessanti e originali del panorama filosofico contemporaneo, dando forma a uno sguardo ben definito sul nostro mondo, nonostante per eccesso di understatement – o una punta di adorabile civetteria? – neghi proprio in questo libro di essersi mai curata di costruire un sistema.
Tale sguardo nasce da un metodo di indagine affinato con il tempo, che combina un non comune talento nel maneggiare il mondo delle metafore – soprattutto quelle di derivazione classica, che tanto aveva colpito Norberto Bobbio in una famosa recensione di uno dei primi libri della Rigotti – e un’acuta sensibilità delle discriminazioni e dei soprusi che in ogni attività, a partire proprio dall’attività del filosofare, hanno da sempre subito le bambine, prima, le ragazze, poi, e le donne, dopo, trasformata in strumento filosofico che apre prospettive di riflessione universali, con la capacità di individuare l’infinito potenziale di pensiero che si annida nelle pieghe più riposte dell’esperienza quotidiana.
E così è anche in questo libro. A cominciare dalla serrata e illuminante analisi delle immagini con cui i media riferiscono dei fenomeni migratori: ondata, flusso, tsunami, con singolare ribaltamento dei dati di realtà. Fino a prova contraria a essere travolti e a morire sono i migranti, non le società su cui si lascia intendere si stanno abbattendo. Per passare alla riflessione, mutuata da Simmel, sui significati connessi all’idea di contenimento attraverso muri privati delle porte, dighe, barriere. Mettendo in luce il paradosso per cui si vagheggia la chiusura, peraltro impossibile, degli spazi fisici, mentre le notizie e le informazioni dilagano – ah! – travolgendo ogni barriera e rendendo sempre più obsoleto il concetto stesso di chiusura. Ma il cuore del libro muove dall’identificazione. L’assunto è tanto semplice quanto potente: io so cosa vuol dire emigrare. E, prima di me, lo ha saputo la mia famiglia.
Certo, la Rigotti non si sogna neanche per un momento di proporre un qualche tipo di equivalenza tra la sua esperienza, riconducibile a quella, evocata nel titolo, di chi oggi viene definito anche nella nostra lingua, con un anglismo à la page, un expat. Ma lei, e la sua famiglia prima di lei, sanno cosa vuol dire dover abbandonare il proprio mondo di riferimento. E, attraverso il racconto e la riflessione indotta dal racconto, ci introduce in un altro punto di vista, dove persino il suono della lingua del paese dove si è arrivati fa male. Impossibile leggere quelle pagine e non sentirsi meschini per avere almeno una volta pensato che il problema fosse essenzialmente un problema di risorse e compatibilità. Con la constatazione tagliente e quasi insopportabile da sostenere, tanto scava in una mentalità così radicata da sembrare naturale, che alle donne tocca sempre subire scelte fatte dagli uomini: se partire, dove andare, quanto stare, con l’unica prospettiva di doversi addattare.
Un percorso di doppia estraneità. A sollecitare ancora di più l’empatia dei lettori, il libro è costellato di inserti narrativi dal chiaro sapore autobiografico sapientemente incastonati nello sviluppo dell’argomentazione razionale, resi con uno stile misurato e senza sbavature, che ricorda il tono della prosa intensa e asciugata di Nadine Gordimer e di Alice Munro, grazie soprattutto all’uso della terza persona, che amplifica la risonanza di pensieri, emozioni e ricordi. È l’esempio forse più compiuto di un modo di fare filosofia tratteggiato in uno scritto ancora inedito, che innerva la riflessione filosofica, astratta e universale per definizione, con la rappresentazione letteraria delle storie individuali, concreta e puntuale. Un movimento che accresce la nostra capacità di comprensione e che diventa uno strumento essenziale nell’apprendimento della fragile arte di vivere insieme agli altri.