Aleida Assmann ha insegnato per oltre vent’anni Letteratura inglese e Teoria generale della letteratura all’Università di Costanza, fino al congedo avvenuto nel 2014 quando è stata nominata professore emerito. Nel corso degli anni, accanto al percorso accademico disciplinare, anche se strettamente collegato con esso, ha intrapreso insieme al marito Jan, egittologo di fama mondiale, un programma di ricerca, scandito sia da lavori scritti in collaborazione che da contributi individuali, che li ha condotti a studiare i meccanismi della memoria collettiva, giungendo all’elaborazione del concetto di memoria culturale. Un concetto che si è progressivamente affermato come uno dei più significativi del pensiero contemporaneo, anche in connessione con la crescente centralità che la memoria dello sterminio del popolo ebraico veniva ad acquisire nella costruzione dell’identità europea.
Qualche mese fa, l’editore bolognese il Mulino ha mandato in libreria “Sette modi di dimenticare”, traduzione di un testo pubblicato in Germania nel 2016, in cui la Assmann riprende e rielabora i temi sviluppati nel volume “Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale”, la cui edizione tedesca risale al 1999. Il libro prende le mosse dalla duplice constatazione che lo studio dell’oblio è indispensabile per riuscire a definire i contorni della memoria e che entrambe le facoltà svolgono una funzione fondamentale nel corso dell’esistenza umana. Ciò che ricordiamo è il risultato di ciò che dimentichiamo, e indagare i modi in cui si dimentica risulta essenziale per indagare i processi di costruzione della memoria. Tanto più che la proprietà fondamentale che caratterizza la vita dei singoli e delle società è dimenticare, non ricordare.
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Il rapporto tra questi due processi è asimmetrico: gli uomini sono fatti per dimenticare. A questo proposito, la Assmann richiama una famosa poesia di Carl Sandburg, Grass, pubblicata sul finire della prima guerra mondiale, in cui il maestro americano immagina che l’erba si rivolga agli uomini, chiedendo loro di seppellire i cadaveri delle più sanguinose battaglie della storia, per permetterle di svolgere la sua opera.
Nell’ultima strofa, i passaggeri di un treno che sta passando accanto a uno di quei campi domandano al capotreno dove si trovano. E in luogo della risposta, i due versi finali I am the grass/Let me work ci fanno capire che non sono rimasti più segni riconoscibili di quello che è successo.
Dopo questa analisi introduttiva, la Assmann si addentra nello studio dei meccanismi dell’oblio, enucleando sette modi di dimenticare, che organizza in tre gruppi, classificandoli rispetto ai principi morali. Le tre forme del primo gruppo si configurano come neutrali rispetto al valore, strumenti attraverso i quali diventa possibile definire criteri per fronteggiare l’incessante produzione di esperienze, riducendo la complessità materiale.
Il dimenticare automatico attraverso la naturale predisposizione all’oblio, il dimenticare conservativo attraverso la costituzione di istituzioni cui la società delega la conservazione del patrimonio, quali archivi, biblioteche e musei, il dimenticare selettivo attraverso meccanismi sociali che stabiliscono nel succedersi delle condizioni storiche quali elementi porre al centro della memoria collettiva e quali elementi lasciare sullo sfondo.
Le due forme del secondo gruppo sono, invece, configurate negativamente rispetto al valore, quali strumenti utilizzati per conservare attraverso il silenzio imposto con la forza sui fatti del passato assetti di potere basati sulla compressione delle libertà sociali. Il dimenticare repressivo attraverso la cancellazione sistematica del passato per impedire che diventi un termine di raffronto con il presente, il dimenticare difensivo attraverso la rimozione di qualsiasi traccia che possa permettere di risalire a effettive responsabilità.
Le due forme del terzo gruppo, il dimenticare costruttivo e il dimenticare terapeutico, infine, non solo sono configurate positivamente rispetto al valore, ma si può dire che fondino una vera e propria etica della memoria, intorno alla definizione della quale ruota tutta la costruzione del libro. La riflessione sul ruolo dell’oblio, sui suoi rapporti con il ricordo, l’analisi degli strumenti attraverso cui si conservano le memorie e degli usi dell’oblio al servizio di assetti sociali autoritari diventano passaggi nel percorso che permette di delineare i tratti della memoria etica, la cui ragion d’essere è connessa con la presenza di un passato connotato da un trauma.
Traumi che per essere superati richiedono esplicitamente di essere dimenticati, ma che tanto più sono profondi, tanto meno possono essere rimossi. Per creare, dunque, le condizioni per instaurare nuove relazioni e permettere la costruzione di nuove identità vanno assunti e riconosciuti in tutta la loro rilevanza e incorporati all’interno del nucleo del patrimonio valoriale che definisce la società. Solo in questo modo sarà possibile lasciarseli definitivamente alle spalle e permettere all’oblio di svolgere la sua funzione fondamentale nelle vicende umane. In questa prospettiva, dimenticare assume il significato di superamento e presa di distanza, non di rimozione e cancellazione.
Nello stesso tempo, questa concezione del dimenticare si oppone anche a una memoria fissa e incondizionata, tesa a perpetuare all’infinito le contrapposizioni del passato. Un crinale stretto e problematico, ma l’unico a disposizione degli uomini per non restare intrappolati in un presente senza speranza.