Ma che pena il 25 aprile lasciato in ostaggio all’Anpi

Il 25 aprile 1945 in una Milano ancora spettrale, tra le mille precauzioni della clandestinità tessevano la trama dell’insurrezione nazionale e del trapasso ordinato dei poteri Achille Marazza, Raffaele Cadorna, Corrado Bonfantini, Leo Valiani, Sandro Pertini, che si muovevano ancora sotto false identità. Un democristiano, che avrebbe fatto parte di tutti i ministeri De Gasperi, a cui era stata affidata la responsabilità politica delle operazioni; un generale a capo del Cvl, l’organo militare della Resistenza; un comandante delle Matteotti che avrebbe fondato il Psli con Saragat; un azionista che alla Costituente si batté perché l’Italia diventasse una repubblica presidenziale sul modello degli Stati Uniti; un socialista, che da Presidente della Repubblica avrebbe incaricato Bettino Craxi di formare il governo. Mentre il presidente del Clnai, Alfredo Pizzoni, un banchiere liberale, stava rientrando da una delicata missione al sud presso i comandi alleati – sarebbe arrivato a Milano la mattina del 26 – e uno dei due vicecomandanti del Cvl, Ferruccio Parri, appena liberato dal carcere, stava per raggiungere i suoi compagni.

Settantanove anni dopo, quelle stesse vie e quelle stesse piazze erano occupate da antagonisti e bandiere palestinesi, che non risulta abbiano preso parte alla liberazione dell’Italia e tra le cui comunità più di un leader mostrò spiccate simpatie per il nazismo durante la seconda guerra mondiale, che contestavano ad altri, che pure per la liberazione dell’Italia combatterono e morirono, il diritto di prendere parte alla manifestazione, mentre uno striscione in cima al corteo chiedeva: “Cessate il fuoco ovunque”. Che sarebbe a dire, traducendo nel mondo dei fatti reali e non in quello delle manipolazioni retoriche, che in nome della lotta di Resistenza – che poi andrebbe anche spiegato perché chi celebra la Resistenza si sente in diritto di discettare dell’universo mondo – bisogna chiedere a Israele di lasciarsi annientare senza fare troppe storie e al popolo ucraino di lasciar perdere con la democrazia e di assumere virilmente il proprio destino di sudditi del neonato impero russo. Che, sia chiaro, i sostenitori di questa posizione ammettono comportarsi in maniera discutibile, senonché… Senonché, aggiungono immediatamente, non sono forse infinitamente più sconfinate le responsabilità dell’occidente? Già, quell’occidente imperialista e colonialista, che, se non fosse stato per l’improvvido attacco tedesco del 22 giugno del 1941, si sarebbe potuto lasciare a proseguire da solo la sua contesa tutta interna alla logica del più inumano dei sistemi, quello capitalista, con la Germania nazista. E che continua a opprimere il mondo all’ombra della finzione della società aperta. Una lettura, questa, che unisce gli orfani delle speranze suscitate dalla svolta storica della Rivoluzione bolscevica, tesi a riattualizzarla in nuove forme di lotta, con i militanti del nuovo antioccidentalismo, che prefigurano mondi futuri, tutti da immaginare, affrancati dallo stato presente delle cose.

Sfugge che rapporto ci sia tra il 25 aprile storico e la sua caricatura contemporanea, ma soprattutto sfugge perché il principale artefice di questa trasformazione caricaturale continui a essere considerato il depositario della memoria resistenziale, tanto da dettare le condizioni da soddisfare per accedere al corteo e da imporre slogan e contenuti delle manifestazioni. Il movimento resistenziale ha avuto un’articolazione amplissima e plurale e l’Anpi rappresenta da sempre solo una parte di una parte, quella dei combattenti partigiani, di quel movimento così eterogeneo e multiforme.

Fondata su sollecitazione inglese all’indomani della liberazione di Roma, il 6 giugno del 1944, per assistere i partigiani e le loro famiglie nel reinserimento nella vita civile, provvedendo alle loro necessità sul modello della British Legion, divenne rapidamente al termine della guerra uno strumento della politica frontista, tanto da indurre prima i partigiani cattolici a fondare il 2 marzo 1947 l’Associazione Partigiani Cristiani, poi confluita il 22 marzo 1948 nella Fivl, che raccoglie con struttura federale oltre ai partigiani delle formazioni cattoliche quelli delle formazioni autonome, poi i partigiani di tradizione liberaldemocratica e di socialismo democratico a fondare la Fiap, il 9 gennaio 1949. Da notare che i presidenti di queste due associazioni, Enrico Mattei e Ferruccio Parri, avevano fatto parte del comando generale del Cvl. Da quel momento la storia dell’Anpi è stata quella di una diligente cinghia di trasmissione della politica del Partito comunista – né più, né meno come la Cgil, che ha avuto una storia per certi versi molto simile – a partire dalla campagna filostaliniana contro il Piano Marshall e da quella antieuropeista dei Partigiani della pace, quando si è trattato di boicottare la Comunità europea di difesa, fino alla fine della guerra fredda e al relativo crollo del sistema dei partiti che aveva strutturato il primo cinquantennio repubblicano.

La possibilità che si era aperta allora di ricomporre le linee di divisione che avevano attraversato il mondo partigiano, rinunciando a una presenza militante e storicizzando le diverse posizioni, in modo da elaborare una memoria saldamente ancorata ai princìpi della democrazia liberale, chiudendo così, una volta per tutte, gli spazi lasciati non tanto alla rivalutazione del regime fascista nel suo complesso, come si dice correntemente, ma alla permanenza di posizioni ambigue riguardo il senso della storia nazionale, che coltivavano un senso di estraneità rispetto alla democrazia repubblicana, mantenendo qualche linea di continuità con alcune posizioni del ventennio che considerano giustificate, venne, però, bruscamente sommersa dalla stagione dell’antiberlusconismo più ottuso. Antiberlusconismo, va detto, alimentato ad arte dallo stesso Berlusconi, fin dalla sua plateale rinuncia a prendere parte alle celebrazioni del 25 aprile 1994, quando non aveva ancora obblighi istituzionali visto che avrebbe formato il governo soltanto il 10 maggio successivo, che sull’opposizione a un comunismo che non c’era più, ma che ha sempre cercato disperatamente di tenere in vita, ha costruito le sue fortune elettorali, stante la permanente difficoltà delle forze di sinistra di costruire una proposta politica convincente e compiuta nel solco della tradizione della democrazia liberale.

Con il passare del tempo, mentre, per ovvie ragioni anagrafiche, i partigiani diventavano sempre meno, da baluardo principe contro il paventato ritorno del fascismo subdolamente architettato dal leader di Forza Italia, l’Anpi si è progressivamente trasformata in un partitino della sinistra radicale, formato da militanti che piegano ai loro obiettivi politici la memoria di quegli eventi senza rispettarne l’essenza, che non conoscono, né hanno interesse a conoscere. Ma a cui si è lasciato incredibilmente occupare la scena come eredi e interpreti dei valori resistenziali.

C’è da stupirsi che la maggior parte delle persone, quella che in democrazia – formale, sia chiaro; riconosciamo i nostri insuperabili limiti irrimediabilmente borghesi – conta, sia sempre più infastidita dalla memoria della Resistenza così arbitrariamente e desolatamente definita, e se ne tenga sempre più lontana?

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Una risposta

  1. capisco che ci si debba guadagnare il cibo, ma non ho mai amato chi sentenzia senza aver mai combattuto e si autolegittima storico imparziale.

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Ma che pena il 25 aprile lasciato in ostaggio all’Anpi

Il 25 aprile 1945 in una Milano ancora spettrale, tra le mille precauzioni della clandestinità tessevano la trama dell’insurrezione nazionale e del trapasso ordinato dei poteri Achille Marazza, Raffaele Cadorna, Corrado Bonfantini, Leo Valiani, Sandro Pertini, che si muovevano ancora sotto false identità. Un democristiano, che avrebbe fatto parte di tutti i ministeri De Gasperi, a cui era stata affidata la responsabilità politica delle operazioni; un generale a capo del Cvl, l’organo militare della Resistenza; un comandante delle Matteotti che avrebbe fondato il Psli con Saragat; un azionista che alla Costituente si batté perché l’Italia diventasse una repubblica presidenziale sul modello degli Stati Uniti; un socialista, che da Presidente della Repubblica avrebbe incaricato Bettino Craxi di formare il governo. Mentre il presidente del Clnai, Alfredo Pizzoni, un banchiere liberale, stava rientrando da una delicata missione al sud presso i comandi alleati – sarebbe arrivato a Milano la mattina del 26 – e uno dei due vicecomandanti del Cvl, Ferruccio Parri, appena liberato dal carcere, stava per raggiungere i suoi compagni.

Settantanove anni dopo, quelle stesse vie e quelle stesse piazze erano occupate da antagonisti e bandiere palestinesi, che non risulta abbiano preso parte alla liberazione dell’Italia e tra le cui comunità più di un leader mostrò spiccate simpatie per il nazismo durante la seconda guerra mondiale, che contestavano ad altri, che pure per la liberazione dell’Italia combatterono e morirono, il diritto di prendere parte alla manifestazione, mentre uno striscione in cima al corteo chiedeva: “Cessate il fuoco ovunque”. Che sarebbe a dire, traducendo nel mondo dei fatti reali e non in quello delle manipolazioni retoriche, che in nome della lotta di Resistenza – che poi andrebbe anche spiegato perché chi celebra la Resistenza si sente in diritto di discettare dell’universo mondo – bisogna chiedere a Israele di lasciarsi annientare senza fare troppe storie e al popolo ucraino di lasciar perdere con la democrazia e di assumere virilmente il proprio destino di sudditi del neonato impero russo. Che, sia chiaro, i sostenitori di questa posizione ammettono comportarsi in maniera discutibile, senonché… Senonché, aggiungono immediatamente, non sono forse infinitamente più sconfinate le responsabilità dell’occidente? Già, quell’occidente imperialista e colonialista, che, se non fosse stato per l’improvvido attacco tedesco del 22 giugno del 1941, si sarebbe potuto lasciare a proseguire da solo la sua contesa tutta interna alla logica del più inumano dei sistemi, quello capitalista, con la Germania nazista. E che continua a opprimere il mondo all’ombra della finzione della società aperta. Una lettura, questa, che unisce gli orfani delle speranze suscitate dalla svolta storica della Rivoluzione bolscevica, tesi a riattualizzarla in nuove forme di lotta, con i militanti del nuovo antioccidentalismo, che prefigurano mondi futuri, tutti da immaginare, affrancati dallo stato presente delle cose.

Sfugge che rapporto ci sia tra il 25 aprile storico e la sua caricatura contemporanea, ma soprattutto sfugge perché il principale artefice di questa trasformazione caricaturale continui a essere considerato il depositario della memoria resistenziale, tanto da dettare le condizioni da soddisfare per accedere al corteo e da imporre slogan e contenuti delle manifestazioni. Il movimento resistenziale ha avuto un’articolazione amplissima e plurale e l’Anpi rappresenta da sempre solo una parte di una parte, quella dei combattenti partigiani, di quel movimento così eterogeneo e multiforme.

Fondata su sollecitazione inglese all’indomani della liberazione di Roma, il 6 giugno del 1944, per assistere i partigiani e le loro famiglie nel reinserimento nella vita civile, provvedendo alle loro necessità sul modello della British Legion, divenne rapidamente al termine della guerra uno strumento della politica frontista, tanto da indurre prima i partigiani cattolici a fondare il 2 marzo 1947 l’Associazione Partigiani Cristiani, poi confluita il 22 marzo 1948 nella Fivl, che raccoglie con struttura federale oltre ai partigiani delle formazioni cattoliche quelli delle formazioni autonome, poi i partigiani di tradizione liberaldemocratica e di socialismo democratico a fondare la Fiap, il 9 gennaio 1949. Da notare che i presidenti di queste due associazioni, Enrico Mattei e Ferruccio Parri, avevano fatto parte del comando generale del Cvl. Da quel momento la storia dell’Anpi è stata quella di una diligente cinghia di trasmissione della politica del Partito comunista – né più, né meno come la Cgil, che ha avuto una storia per certi versi molto simile – a partire dalla campagna filostaliniana contro il Piano Marshall e da quella antieuropeista dei Partigiani della pace, quando si è trattato di boicottare la Comunità europea di difesa, fino alla fine della guerra fredda e al relativo crollo del sistema dei partiti che aveva strutturato il primo cinquantennio repubblicano.

La possibilità che si era aperta allora di ricomporre le linee di divisione che avevano attraversato il mondo partigiano, rinunciando a una presenza militante e storicizzando le diverse posizioni, in modo da elaborare una memoria saldamente ancorata ai princìpi della democrazia liberale, chiudendo così, una volta per tutte, gli spazi lasciati non tanto alla rivalutazione del regime fascista nel suo complesso, come si dice correntemente, ma alla permanenza di posizioni ambigue riguardo il senso della storia nazionale, che coltivavano un senso di estraneità rispetto alla democrazia repubblicana, mantenendo qualche linea di continuità con alcune posizioni del ventennio che considerano giustificate, venne, però, bruscamente sommersa dalla stagione dell’antiberlusconismo più ottuso. Antiberlusconismo, va detto, alimentato ad arte dallo stesso Berlusconi, fin dalla sua plateale rinuncia a prendere parte alle celebrazioni del 25 aprile 1994, quando non aveva ancora obblighi istituzionali visto che avrebbe formato il governo soltanto il 10 maggio successivo, che sull’opposizione a un comunismo che non c’era più, ma che ha sempre cercato disperatamente di tenere in vita, ha costruito le sue fortune elettorali, stante la permanente difficoltà delle forze di sinistra di costruire una proposta politica convincente e compiuta nel solco della tradizione della democrazia liberale.

Con il passare del tempo, mentre, per ovvie ragioni anagrafiche, i partigiani diventavano sempre meno, da baluardo principe contro il paventato ritorno del fascismo subdolamente architettato dal leader di Forza Italia, l’Anpi si è progressivamente trasformata in un partitino della sinistra radicale, formato da militanti che piegano ai loro obiettivi politici la memoria di quegli eventi senza rispettarne l’essenza, che non conoscono, né hanno interesse a conoscere. Ma a cui si è lasciato incredibilmente occupare la scena come eredi e interpreti dei valori resistenziali.

C’è da stupirsi che la maggior parte delle persone, quella che in democrazia – formale, sia chiaro; riconosciamo i nostri insuperabili limiti irrimediabilmente borghesi – conta, sia sempre più infastidita dalla memoria della Resistenza così arbitrariamente e desolatamente definita, e se ne tenga sempre più lontana?

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