L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione.

L’irrituale nota del Quirinale segna un passaggio di rilievo assoluto. L’autorevolezza acquisita dal Presidente Sergio Mattarella, la sua storia politica, l’ancoraggio a una tradizione europeista che affonda le sue radici nel magistero degasperiano le conferiscono un’autorità particolare, che sostiene la capacità di comprendere con chiarezza la natura ultima della fase in corso. Prima ancora che prendere posizione sui destini contingenti dell’Italia, infatti, Mattarella ha la capacità di interrogare il futuro stesso dell’Unione europea, richiamandosi a una responsabilità comune, che la crisi in corso sollecita più di ogni altra per la sua origine esterna, che ci riporta all’essenza della giustificazione delle comunità politiche.

 

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Prima ancora che per rendere possibile la cooperazione all’interno di un gruppo e per difendersi da altri gruppi, gli uomini accettano di sottoporsi al comando politico per fronteggiare le minacce di un ambiente ostile. Una dimensione totalmente rimossa sulla scia dei progressi straordinari della scienza e della tecnica, tanto da essere sopravvissuta soltanto nelle introduzioni dei manuali di antropologia politica. Ma a questo servono le istituzioni politiche e a questo servono le classi dirigenti, quando ci sono. Perciò Mattarella scrive «Si attende». Non l’Italia attende. Si attende la solidarietà necessaria per contrastare una minaccia globale, che attraversa senza alcun riguardo quasi ogni tipo di confine. Solidarietà che è l’azione principale che lega coloro che si riconoscono in un noi. E tutti coloro che si attendono iniziative di solidarietà, se le attendono nel comune interesse, cioè in ragione di un interesse che è di tutti.

Sarebbe imperdonabile non saper leggere adeguatamente la portata di questa sfida storica, che rende evidente ciò che da tempo avrebbe dovuto essere evidente: i problemi dell’umanità del futuro saranno sempre più globali e per riuscire a fronteggiarli bisogna dotarsi di istituzioni globali e classi dirigenti che abbiano quale orizzonte il mondo.

Non c’è più spazio per una interpretazione riduttiva di quel tutti, per distinguo ancorati a visioni che le accelerazioni della storia rendono obsoleti a grandissima velocità. È questo che il Presidente chiede alle istituzioni dell’Unione europea, è questo quello che chiedono tutti gli elettori che hanno sostenuto le formazioni politiche europeiste alle elezioni dello scorso anno. E lo si chiede a buon diritto, il diritto che nasce dall’aver tanto creduto e lottato in una Unione che si lasciasse definitivamente alle spalle i piccoli calcoli e le piccole meschinità. L’alternativa sarebbe di ritrovarsi tutti impotenti e vulnerabili, persi definitivamente in un mondo caotico e ingovernabile.

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L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione.

L’irrituale nota del Quirinale segna un passaggio di rilievo assoluto. L’autorevolezza acquisita dal Presidente Sergio Mattarella, la sua storia politica, l’ancoraggio a una tradizione europeista che affonda le sue radici nel magistero degasperiano le conferiscono un’autorità particolare, che sostiene la capacità di comprendere con chiarezza la natura ultima della fase in corso. Prima ancora che prendere posizione sui destini contingenti dell’Italia, infatti, Mattarella ha la capacità di interrogare il futuro stesso dell’Unione europea, richiamandosi a una responsabilità comune, che la crisi in corso sollecita più di ogni altra per la sua origine esterna, che ci riporta all’essenza della giustificazione delle comunità politiche.

 

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Prima ancora che per rendere possibile la cooperazione all’interno di un gruppo e per difendersi da altri gruppi, gli uomini accettano di sottoporsi al comando politico per fronteggiare le minacce di un ambiente ostile. Una dimensione totalmente rimossa sulla scia dei progressi straordinari della scienza e della tecnica, tanto da essere sopravvissuta soltanto nelle introduzioni dei manuali di antropologia politica. Ma a questo servono le istituzioni politiche e a questo servono le classi dirigenti, quando ci sono. Perciò Mattarella scrive «Si attende». Non l’Italia attende. Si attende la solidarietà necessaria per contrastare una minaccia globale, che attraversa senza alcun riguardo quasi ogni tipo di confine. Solidarietà che è l’azione principale che lega coloro che si riconoscono in un noi. E tutti coloro che si attendono iniziative di solidarietà, se le attendono nel comune interesse, cioè in ragione di un interesse che è di tutti.

Sarebbe imperdonabile non saper leggere adeguatamente la portata di questa sfida storica, che rende evidente ciò che da tempo avrebbe dovuto essere evidente: i problemi dell’umanità del futuro saranno sempre più globali e per riuscire a fronteggiarli bisogna dotarsi di istituzioni globali e classi dirigenti che abbiano quale orizzonte il mondo.

Non c’è più spazio per una interpretazione riduttiva di quel tutti, per distinguo ancorati a visioni che le accelerazioni della storia rendono obsoleti a grandissima velocità. È questo che il Presidente chiede alle istituzioni dell’Unione europea, è questo quello che chiedono tutti gli elettori che hanno sostenuto le formazioni politiche europeiste alle elezioni dello scorso anno. E lo si chiede a buon diritto, il diritto che nasce dall’aver tanto creduto e lottato in una Unione che si lasciasse definitivamente alle spalle i piccoli calcoli e le piccole meschinità. L’alternativa sarebbe di ritrovarsi tutti impotenti e vulnerabili, persi definitivamente in un mondo caotico e ingovernabile.

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