Il convitato di pietra dell’ultimo Vinitaly è stato il cambiamento climatico. Se ne parlava ovunque ma sottovoce: fra i padiglioni, nelle degustazioni… meno, però, nei lavori della Fiera veronese. Qualche panel qua e là, nessun politico, poca copertura mediatica. Qualcosa negli appuntamenti: “Tra suoli e cantina: la biodinamica in risposta agli effetti della nuova tendenza climatica” organizzato da Vi.Te. Vignaioli e Territori, l’associazione che gestisce l’omonimo e sempre molto affollato spazio dedicato ai vini naturali all’interno della fiera, e “Come il clima cambia il vino” organizzato da Confagricoltura.
Proprio il suo presidente, Massimiliano Giansanti, ha ribadito in diverse interviste la necessità di un approccio sempre più deciso alla questione climatica: “Scienza e ricerca applicate sono fondamentali anche nel comparto vitivinicolo, l’autorizzazione a impiantare nuovi vitigni resistenti a siccità e malattie sarà determinante per non compromettere le raccolte”. Si è trattata però di voce piuttosto isolata in un contesto che sembra occuparsi in maniera sempre troppo laterale di questioni così centrali. Da una parte, il ruolo dei vitigni resistenti, i Piwi, incrocio tra varietà di uva resistenti alle malattie fungine e varietà tradizionali, progettualità da cui la mia regione , il Piemonte, sembra assente. Dall’altra, quello dei vitigni autoctoni, quelli più legati a uno specifico luogo che meglio di altri che forse si adattano a lunghi periodi di siccità. Nel mezzo, la ricerca sui migliori portainnesti, sulla gestione dei suoli, del verde…
Tanti temi aperti che riguardano la viticoltura alle latitudini a noi più familiari, situazione che deve anche fare i conti con uno spostamento dei vigneti in alto e al nord.
Spostamento di vigneti che dovrebbe avvantaggiare la mia area dell’Alto Piemonte. Sempre che i cambiamenti climatici non producano effetti imprevisti. Le soluzioni partono dalla consapevolezza e non dal litigio fra le parti.
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