1321, idi di settembre. In morte di un Poeta

La fine del viaggio terreno di Dante avviene nella notte tra il 13 e il 14 Settembre di 700 anni fa. Il poeta si trova a Ravenna, ospite del suo mecenate Guido Novello da Polenta. Giovanni Boccaccio racconta che il signore della città romagnola aveva più volte insistito nel corso degli anni per averlo nella sua dimora, “richiedendolo di spezial grazia. E piacendo sommamente a Dante la liberalità del nobile cavaliere, e stringendolo il bisogno, se ne andò a Ravenna”.

Al tempo la città era un centro importante e fiorente; era stata capitale in epoca bizantina, il porto di Classe gestiva un volume notevole di traffici, e il patrimonio artistico era ricco e splendido.

Era uno dei feudi più estesi d’Italia, controllato dalla Chiesa e in competizione con Venezia per il commercio sull’Adriatico.

Grazie alla sua fama Dante era riuscito negli anni dell’esilio a costruirsi una rete di conoscenze significative e a Ravenna era ben inserito nell’ambiente che conta, cosa che gli aveva consentito di creare ottime opportunità di sistemazione anche per i figli: Pietro e Jacopo, uno magistrato e l’altro letterato, e la figlia, monaca con il nome di Suor Beatrice nel Monastero di Santo Stefano degli Ulivi.

Nell’Agosto del 1321 Dante si reca a Venezia come ambasciatore di Guido da Polenta, per sanare un conflitto tra le due città, ma il viaggio di ritorno attraverso le paludose valli di Comacchio gli è fatale: contrae la malaria e poco dopo si spegne. Lo stupore tra gli intellettuali è grande: il poeta ha solo 56 anni e gode di grande stima; l’amico Cino da Pistoia compone una canzone in cui si rammarica che “son rotte l’ale di ogni ingegno” e chiede a Dio di affidare la sua anima “al grembo di Beatrice”.

I funerali solenni sono celebrati nella Basilica di San Francesco, la cui cripta si trova al di sotto del livello del mare; secondo alcuni interpreti la trasparenza di quell’acqua che ricopre il pavimento, è rievocata in una terzina del “Paradiso”: “per vetri trasparenti e tersi / o ver per acque nitide e tranquille,/ non sì profonde che i fondi sien persi”.

Ma la conoscenza e la famigliarità con i luoghi è dimostrata anche dai richiami alla pineta di Classe, che ispira nel canto XXVIII del “Purgatorio” la serenità e la dolcezza della foresta dell’Eden.

Nonostante i ripetuti e insistenti tentativi dei fiorentini, la città natale di Dante si deve accontentare ancora oggi di un cenotafio in Santa Croce, perché le spoglie sono conservate nella Zona del Silenzio del Quadrarco di Braccioforte, accanto al luogo dei suo funerali, dentro un tempietto neoclassico.

Eppure il nostro poeta non è stato lasciato in pace neanche da morto. Di lì a poco non solo una delle sue opere, il trattato politico “De Monarchia” viene considerato eretico e messo all’Indice dei libri proibiti, ma iniziano a farsi pressanti le richieste di Firenze per avere il corpo di Dante in patria. Ravenna ostinatamente rifiuta, fino a quando non lo chiede nel 1519 papa Leone X, fiorentino della famiglia de’ Medici.

Non si può dire di no al papa, ma il sepolcro viene trovato vuoto e nemmeno si sa spiegare chi abbia trafugato il corpo del Sommo. Il mistero sembra risolto nel 1865, quando durante dei lavori di restauro vengono trovate delle ossa insieme ad una lettera che attesta che sono le spoglie di Dante: il priore del convento di San Francesco aveva nascosto i resti proprio per impedire che fossero portati a Firenze.

Ma non è finita qui. Negli ultimi anni del XIX secolo giungono a Ravenna numerose cassette contenenti ossa umane, spacciate come quelle di Dante trafugate un’altra volta nel 1865. Per fortuna scienza e tecnologia consentono la ricostruzione dello scheletro autentico, grazie ad una rigorosa analisi effettuata nel 1921. In quell’anno, il 600° dalla morte, d’Annunzio, che ha appena inaugurato il Vittoriale, fa recapitare sulla tomba di Dante foglie d’alloro: tre sacchi di tela di juta decorati da Adolfo de Carolis, con le foglie donate dal Vate, e il motto dipinto “Inclusa est flamma”.

Firenze, “madre di poco amore”, continua a rendere omaggio al figlio esiliato davanti a tante statue in città e alla tomba vuota di Santa Croce realizzata nel 1829.

Dante non è tornato a casa. E nonostante la nostalgia per la sua amata Patria, a lui che si definiva un “exul inmeritus”, forse sta bene così.

Il silenzio che avvolge il suo sepolcro è rotto soltanto dal brusio dei turisti rispettosi e in soggezione e dal suono di una squilla “nell’ora che volge il disio”.

[Immagine: Ravenna, Tomba di Dante. Camillo Morigia, 1780 – 82]

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1321, idi di settembre. In morte di un Poeta

La fine del viaggio terreno di Dante avviene nella notte tra il 13 e il 14 Settembre di 700 anni fa. Il poeta si trova a Ravenna, ospite del suo mecenate Guido Novello da Polenta. Giovanni Boccaccio racconta che il signore della città romagnola aveva più volte insistito nel corso degli anni per averlo nella sua dimora, “richiedendolo di spezial grazia. E piacendo sommamente a Dante la liberalità del nobile cavaliere, e stringendolo il bisogno, se ne andò a Ravenna”.

Al tempo la città era un centro importante e fiorente; era stata capitale in epoca bizantina, il porto di Classe gestiva un volume notevole di traffici, e il patrimonio artistico era ricco e splendido.

Era uno dei feudi più estesi d’Italia, controllato dalla Chiesa e in competizione con Venezia per il commercio sull’Adriatico.

Grazie alla sua fama Dante era riuscito negli anni dell’esilio a costruirsi una rete di conoscenze significative e a Ravenna era ben inserito nell’ambiente che conta, cosa che gli aveva consentito di creare ottime opportunità di sistemazione anche per i figli: Pietro e Jacopo, uno magistrato e l’altro letterato, e la figlia, monaca con il nome di Suor Beatrice nel Monastero di Santo Stefano degli Ulivi.

Nell’Agosto del 1321 Dante si reca a Venezia come ambasciatore di Guido da Polenta, per sanare un conflitto tra le due città, ma il viaggio di ritorno attraverso le paludose valli di Comacchio gli è fatale: contrae la malaria e poco dopo si spegne. Lo stupore tra gli intellettuali è grande: il poeta ha solo 56 anni e gode di grande stima; l’amico Cino da Pistoia compone una canzone in cui si rammarica che “son rotte l’ale di ogni ingegno” e chiede a Dio di affidare la sua anima “al grembo di Beatrice”.

I funerali solenni sono celebrati nella Basilica di San Francesco, la cui cripta si trova al di sotto del livello del mare; secondo alcuni interpreti la trasparenza di quell’acqua che ricopre il pavimento, è rievocata in una terzina del “Paradiso”: “per vetri trasparenti e tersi / o ver per acque nitide e tranquille,/ non sì profonde che i fondi sien persi”.

Ma la conoscenza e la famigliarità con i luoghi è dimostrata anche dai richiami alla pineta di Classe, che ispira nel canto XXVIII del “Purgatorio” la serenità e la dolcezza della foresta dell’Eden.

Nonostante i ripetuti e insistenti tentativi dei fiorentini, la città natale di Dante si deve accontentare ancora oggi di un cenotafio in Santa Croce, perché le spoglie sono conservate nella Zona del Silenzio del Quadrarco di Braccioforte, accanto al luogo dei suo funerali, dentro un tempietto neoclassico.

Eppure il nostro poeta non è stato lasciato in pace neanche da morto. Di lì a poco non solo una delle sue opere, il trattato politico “De Monarchia” viene considerato eretico e messo all’Indice dei libri proibiti, ma iniziano a farsi pressanti le richieste di Firenze per avere il corpo di Dante in patria. Ravenna ostinatamente rifiuta, fino a quando non lo chiede nel 1519 papa Leone X, fiorentino della famiglia de’ Medici.

Non si può dire di no al papa, ma il sepolcro viene trovato vuoto e nemmeno si sa spiegare chi abbia trafugato il corpo del Sommo. Il mistero sembra risolto nel 1865, quando durante dei lavori di restauro vengono trovate delle ossa insieme ad una lettera che attesta che sono le spoglie di Dante: il priore del convento di San Francesco aveva nascosto i resti proprio per impedire che fossero portati a Firenze.

Ma non è finita qui. Negli ultimi anni del XIX secolo giungono a Ravenna numerose cassette contenenti ossa umane, spacciate come quelle di Dante trafugate un’altra volta nel 1865. Per fortuna scienza e tecnologia consentono la ricostruzione dello scheletro autentico, grazie ad una rigorosa analisi effettuata nel 1921. In quell’anno, il 600° dalla morte, d’Annunzio, che ha appena inaugurato il Vittoriale, fa recapitare sulla tomba di Dante foglie d’alloro: tre sacchi di tela di juta decorati da Adolfo de Carolis, con le foglie donate dal Vate, e il motto dipinto “Inclusa est flamma”.

Firenze, “madre di poco amore”, continua a rendere omaggio al figlio esiliato davanti a tante statue in città e alla tomba vuota di Santa Croce realizzata nel 1829.

Dante non è tornato a casa. E nonostante la nostalgia per la sua amata Patria, a lui che si definiva un “exul inmeritus”, forse sta bene così.

Il silenzio che avvolge il suo sepolcro è rotto soltanto dal brusio dei turisti rispettosi e in soggezione e dal suono di una squilla “nell’ora che volge il disio”.

[Immagine: Ravenna, Tomba di Dante. Camillo Morigia, 1780 – 82]

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