Ahi Pisa, vituperio de le genti

Esistono inimicizie mai sopite e divenute proverbiali tra le città toscane, tanto che dalle parti di Lucca e Livorno dicono che “E’ meglio un morto in casa, che un pisano sull’uscio”. Sono contrasti profondamente radicati nei secoli, nelle differenze sociali, nelle competizioni politiche e calcistiche: l’eterna rivalità dei campanili per cui ciò che è fuori dalla cerchia delle mura è nemico, e al di sotto del proprio livello.

Nemmeno gli onori a Dante dopo 700 anni servono ad abbattere quelle mura. Anzi. A Caprona, provincia di Pisa, qualche settimana fa è comparso un dipinto ad abbellire un muro lungo la strada che unisce il borgo di Calci a Vicopisano, con tanto di naso e citazione dantesca: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Qualcuno deve essersi però ricordato che Dante nel 1289 aveva combattuto con i guelfi fiorentini contro Caprona, costringendo gli avversari ad arrendersi; non solo, ma nel canto XXI dell’Inferno ricorda la paura delle truppe pisane dopo la resa:

“Così vid’io già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti”.

E non ha risparmiato poi ai cittadini della torre pendente un paragone con “le volpi sì piene di froda” nel Purgatorio. Non è passato molto tempo e di fronte al murale è stato messo uno striscione che ribadisce perentoriamente: “Calci e Caprona. Dante non rappresenta la zona”.

Evidentemente da quelle parti non hanno ancora metabolizzato l’invettiva pronunciata dal Poeta nel canto XXXIII dell’Inferno, quello del conte Ugolino della Gherardesca, che ricoprì ruoli importanti nella politica di Pisa, suscitando però sospetti sulla sua condotta e accuse di tradimento. Il conte fu arrestato nel 1289 e rinchiuso in prigione nella Torre della Muda con due figli e due nipoti, innocenti eppure incarcerati con lui per timore di future rivendicazioni e vendette. La porta della torre si chiuse per nove mesi e fu riaperta solo per rimuovere i cadaveri: erano tutti morti di inedia.

Dante era indignato per l’esito estremo degli odi di parte e, dopo aver ascoltato il racconto del dannato intrappolato nel ghiaccio del Cocito, si augura che le isole dell’arcipelago toscano ostruiscano la foce dell’Arno così che l’acqua del fiume sommerga e anneghi tutti gli abitanti di Pisa.

“Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!”

Insomma, guelfi e ghibellini sono ancora tra noi. E poi dicono che nel nostro tempo inaridito e accelerato stiamo perdendo la memoria storica.

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Ahi Pisa, vituperio de le genti

Esistono inimicizie mai sopite e divenute proverbiali tra le città toscane, tanto che dalle parti di Lucca e Livorno dicono che “E’ meglio un morto in casa, che un pisano sull’uscio”. Sono contrasti profondamente radicati nei secoli, nelle differenze sociali, nelle competizioni politiche e calcistiche: l’eterna rivalità dei campanili per cui ciò che è fuori dalla cerchia delle mura è nemico, e al di sotto del proprio livello.

Nemmeno gli onori a Dante dopo 700 anni servono ad abbattere quelle mura. Anzi. A Caprona, provincia di Pisa, qualche settimana fa è comparso un dipinto ad abbellire un muro lungo la strada che unisce il borgo di Calci a Vicopisano, con tanto di naso e citazione dantesca: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Qualcuno deve essersi però ricordato che Dante nel 1289 aveva combattuto con i guelfi fiorentini contro Caprona, costringendo gli avversari ad arrendersi; non solo, ma nel canto XXI dell’Inferno ricorda la paura delle truppe pisane dopo la resa:

“Così vid’io già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti”.

E non ha risparmiato poi ai cittadini della torre pendente un paragone con “le volpi sì piene di froda” nel Purgatorio. Non è passato molto tempo e di fronte al murale è stato messo uno striscione che ribadisce perentoriamente: “Calci e Caprona. Dante non rappresenta la zona”.

Evidentemente da quelle parti non hanno ancora metabolizzato l’invettiva pronunciata dal Poeta nel canto XXXIII dell’Inferno, quello del conte Ugolino della Gherardesca, che ricoprì ruoli importanti nella politica di Pisa, suscitando però sospetti sulla sua condotta e accuse di tradimento. Il conte fu arrestato nel 1289 e rinchiuso in prigione nella Torre della Muda con due figli e due nipoti, innocenti eppure incarcerati con lui per timore di future rivendicazioni e vendette. La porta della torre si chiuse per nove mesi e fu riaperta solo per rimuovere i cadaveri: erano tutti morti di inedia.

Dante era indignato per l’esito estremo degli odi di parte e, dopo aver ascoltato il racconto del dannato intrappolato nel ghiaccio del Cocito, si augura che le isole dell’arcipelago toscano ostruiscano la foce dell’Arno così che l’acqua del fiume sommerga e anneghi tutti gli abitanti di Pisa.

“Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!”

Insomma, guelfi e ghibellini sono ancora tra noi. E poi dicono che nel nostro tempo inaridito e accelerato stiamo perdendo la memoria storica.

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