“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”. Incise sulla porta dell’inferno, queste parole trasmettono subito angoscia a Dante. Neanche il tempo di riprendersi, che vede una folla di anime dannate pronte per essere traghettate al di là dell’Acheronte dal primo di una serie di tremendi personaggi, ministri della volontà divina e custodi dei cerchi e dei passaggi. Si tratta di Caronte, il “nocchier de la livida palude”.

E’ poi la volta di Minosse, mitico re di Creta che “orribilmente ringhia”, descritto con tratti bestiali e una lunga coda che avvolge intorno al corpo per indicare il numero del cerchio a cui i dannati sono destinati. Entrambi vorrebbero impedire a Dante di passare, ma Virgilio li zittisce: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”.

Tutti conoscono Cerbero, il cane a tre teste che sorveglia i golosi, “graffia li spirti ed iscoia ed isquatra”. Alle soglie del quarto cerchio il poeta si ritrova davanti il dio della ricchezza Pluto, blasfemo e deformato dalla rabbia e dall’avidità, azzeccata allegoria del vizio capitale dell’avarizia. E’ il mostro che urla la sgraziata e oscura frase “Papè Satàn aleppe”, talmente oscura che nessuna delle assai numerose ipotesi interpretative è risultata convincente e risolutiva, pur spaziando con erudizione in tutte le lingue (a meno che non abbiano ragione Carlo Porta, con la sua misteriosa filastrocca milanese “Ara bell’Ara discesa Cornara”, o Topolino con il più prosaico e gustoso “Panesalàm Panesalàm afette”). Riesce a zittirlo solo Virgilio: “Taci, maledetto lupo!”

Ma forse era intenzione di Dante dirci che la parola, veicolo di comunicazione e umanità, nel buio del peccato diventa urlo animale incomprensibile. Di nuovo ostacolato dall’acqua, quella putrida e fangosa dello Stige, il poeta è costretto a fidarsi di una altro nocchiero, Flegiàs, che in vita accecato dall’ira aveva incendiato un tempio di Apollo, impresa che gli vale il compito di tenere a bada dalla sua barca gli iracondi, assai meno carismatico di Caronte.

Sul bordo del settimo cerchio poi, Dante vede “per quell’aere grosso e scuro / venir notando una figura in suso / meravigliosa ad ogne cor sicuro”: cala su di lui volando Gerione, con la sua testa di uomo giusto, ali di pipistrello, corpo di serpente e zampe pelose, “sozza imagine di froda”, rassicurante nel volto e orrendo e bestiale nel resto del corpo.

Dante deve salirgli in groppa per giungere sul fondo di un precipizio, nell’ottavo cerchio infernale. Noi ci immedesimiamo nella sua paura: il poeta dice di sentirsi addosso i brividi della febbre quartana, ma c’è Virgilio che lo esorta a farsi forte e ardito, perché “ormai si scende per sì fatte scale”; lo fa salire davanti e lui dietro, perché la coda di scorpione di Gerione non possa fargli male.

E il viaggio continua…

 

[R. Bompiani, Dante e Virgilio portati in volo da Gerione, 1893. Roma, Accademia di San Luca]

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“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”. Incise sulla porta dell’inferno, queste parole trasmettono subito angoscia a Dante. Neanche il tempo di riprendersi, che vede una folla di anime dannate pronte per essere traghettate al di là dell’Acheronte dal primo di una serie di tremendi personaggi, ministri della volontà divina e custodi dei cerchi e dei passaggi. Si tratta di Caronte, il “nocchier de la livida palude”.

E’ poi la volta di Minosse, mitico re di Creta che “orribilmente ringhia”, descritto con tratti bestiali e una lunga coda che avvolge intorno al corpo per indicare il numero del cerchio a cui i dannati sono destinati. Entrambi vorrebbero impedire a Dante di passare, ma Virgilio li zittisce: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”.

Tutti conoscono Cerbero, il cane a tre teste che sorveglia i golosi, “graffia li spirti ed iscoia ed isquatra”. Alle soglie del quarto cerchio il poeta si ritrova davanti il dio della ricchezza Pluto, blasfemo e deformato dalla rabbia e dall’avidità, azzeccata allegoria del vizio capitale dell’avarizia. E’ il mostro che urla la sgraziata e oscura frase “Papè Satàn aleppe”, talmente oscura che nessuna delle assai numerose ipotesi interpretative è risultata convincente e risolutiva, pur spaziando con erudizione in tutte le lingue (a meno che non abbiano ragione Carlo Porta, con la sua misteriosa filastrocca milanese “Ara bell’Ara discesa Cornara”, o Topolino con il più prosaico e gustoso “Panesalàm Panesalàm afette”). Riesce a zittirlo solo Virgilio: “Taci, maledetto lupo!”

Ma forse era intenzione di Dante dirci che la parola, veicolo di comunicazione e umanità, nel buio del peccato diventa urlo animale incomprensibile. Di nuovo ostacolato dall’acqua, quella putrida e fangosa dello Stige, il poeta è costretto a fidarsi di una altro nocchiero, Flegiàs, che in vita accecato dall’ira aveva incendiato un tempio di Apollo, impresa che gli vale il compito di tenere a bada dalla sua barca gli iracondi, assai meno carismatico di Caronte.

Sul bordo del settimo cerchio poi, Dante vede “per quell’aere grosso e scuro / venir notando una figura in suso / meravigliosa ad ogne cor sicuro”: cala su di lui volando Gerione, con la sua testa di uomo giusto, ali di pipistrello, corpo di serpente e zampe pelose, “sozza imagine di froda”, rassicurante nel volto e orrendo e bestiale nel resto del corpo.

Dante deve salirgli in groppa per giungere sul fondo di un precipizio, nell’ottavo cerchio infernale. Noi ci immedesimiamo nella sua paura: il poeta dice di sentirsi addosso i brividi della febbre quartana, ma c’è Virgilio che lo esorta a farsi forte e ardito, perché “ormai si scende per sì fatte scale”; lo fa salire davanti e lui dietro, perché la coda di scorpione di Gerione non possa fargli male.

E il viaggio continua…

 

[R. Bompiani, Dante e Virgilio portati in volo da Gerione, 1893. Roma, Accademia di San Luca]

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