Il paradiso è un mondo a sé, oltre il tempo e la storia; si estende interamente al di là dei confini della Terra e chi affronta la lettura della terza tappa del viaggio dantesco avverte questa distanza, sul piano sia della materia narrata sia dello stile poetico.

Coerentemente con la concezione geocentrica del cosmo, Dante immagina il distacco dal pianeta fermo al centro di un universo finito, quindi l’attraversamento di nove cieli materiali che avvolgono la Terra come sfere concentriche, e l’arrivo alla meta finale nell’Empireo, un cielo pieno di luce sede della candida rosa dei beati, degli angeli e di Dio.

Le anime vanno incontro al poeta nei vari cieli per permettergli di comprendere la loro diversa compromissione in vita con le passioni terrene, da cui dipende il loro differente grado di beatitudine: dall’incostanza alla brama di gloria mondana, dalla passione amorosa al desiderio di conoscenza intellettuale, dall’amore per la giustizia alla militanza bellica. Sono tutte felici, perché la loro beatitudine è conforme alla volontà di Dio, hanno compiuto l’infinito desiderio dell’uomo di immedesimarsi con la realtà divina.

Di questo parla Dante, di cose che non abbiamo sperimentato, ma soltanto possiamo sperare. E’ consapevole della novità e della difficoltà dell’impresa: “L’acqua ch’io prendo già mai non si corse”, la navicella del suo ingegno solca un mare eccezionalmente profondo e al ritorno dal viaggio l’esperienza vissuta è ormai un’ombra, un tenue ricordo di sogno appena svanito.

Non ci sono più paesaggi né figure umane: solo cielo, e le persone sono fiamme di luce; poche le vicende personali narrate, prevale il valore profetico di rimprovero ed esortazione per il mondo corrotto.

Eppure anche nel paradiso si incontrano spiriti, si parla, si spiega, Beatrice corregge errori e scioglie dubbi; ma è un cammino della mente, un continuo accrescimento del vedere, un progresso della conoscenza consentito dal graduale affinamento dei sensi e delle facoltà mentali, fino alla visione di Dio, una compenetrazione con la Verità ultima delle cose, che non si può esprimere a parole; la scoperta finale dell’amore universale che ha generato tutte le realtà e le sostiene nell’esistenza.

Ma la Terra e il corpo sono sempre all’attenzione di Dante, il suo viaggio non lo allontana dalla realtà terrena: il protagonista guarda spesso in basso, al mondo che si è lasciato alle spalle, e può misurare la distanza dagli aspetti effimeri dell’esistenza temporale, che lui chiama “insensata cura dei mortali”. Solo così potrà ricevere un mandato preciso, quello di farsi poeta e tornare a raccontare, fino al limite dove si arresta la possibilità del linguaggio umano, continuamente sfidato e forzato, raffinato nel vocabolario e nel suono, sublimato nei latinismi, nelle citazioni bibliche e nei neologismi.

A cominciare dal “trasumanare” del primo canto, in cui Dante descrive il volo dall’Eden al cielo della Luna attraverso la sfera del fuoco: l’uomo trascende il limite della propria natura, entrando nella dimensione divina e adeguandosi a nuove leggi gravitazionali, dato che ormai libero dal peccato “cade” verso il proprio luogo naturale, verso l’alto.

Sta tornando, come tutte le cose create, verso Dio, come ad un porto, come alla propria patria.

Nell’ardua fatica del cammino e della scrittura del sacro poema non sarà solo: Apollo è umilmente invocato perché gli riempia l’animo di forza e virtù; il sorriso di Beatrice non verrà mai meno; per ultima la Vergine, ineludibile intermediaria perché si possa giungere al traguardo.

E mai invocazione più bella è stata scritta per Lei, perché il desiderio di chi cerca una grazia senza ricorrere alla Sua intercessione è un desiderio che pretende di volare senza ali.

Immagine: dalla ‘Divina Commedia’ di Alfonso d’Aragona. Londra, British Library. Manoscritto Yates, metà del XV secolo.

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Il paradiso è un mondo a sé, oltre il tempo e la storia; si estende interamente al di là dei confini della Terra e chi affronta la lettura della terza tappa del viaggio dantesco avverte questa distanza, sul piano sia della materia narrata sia dello stile poetico.

Coerentemente con la concezione geocentrica del cosmo, Dante immagina il distacco dal pianeta fermo al centro di un universo finito, quindi l’attraversamento di nove cieli materiali che avvolgono la Terra come sfere concentriche, e l’arrivo alla meta finale nell’Empireo, un cielo pieno di luce sede della candida rosa dei beati, degli angeli e di Dio.

Le anime vanno incontro al poeta nei vari cieli per permettergli di comprendere la loro diversa compromissione in vita con le passioni terrene, da cui dipende il loro differente grado di beatitudine: dall’incostanza alla brama di gloria mondana, dalla passione amorosa al desiderio di conoscenza intellettuale, dall’amore per la giustizia alla militanza bellica. Sono tutte felici, perché la loro beatitudine è conforme alla volontà di Dio, hanno compiuto l’infinito desiderio dell’uomo di immedesimarsi con la realtà divina.

Di questo parla Dante, di cose che non abbiamo sperimentato, ma soltanto possiamo sperare. E’ consapevole della novità e della difficoltà dell’impresa: “L’acqua ch’io prendo già mai non si corse”, la navicella del suo ingegno solca un mare eccezionalmente profondo e al ritorno dal viaggio l’esperienza vissuta è ormai un’ombra, un tenue ricordo di sogno appena svanito.

Non ci sono più paesaggi né figure umane: solo cielo, e le persone sono fiamme di luce; poche le vicende personali narrate, prevale il valore profetico di rimprovero ed esortazione per il mondo corrotto.

Eppure anche nel paradiso si incontrano spiriti, si parla, si spiega, Beatrice corregge errori e scioglie dubbi; ma è un cammino della mente, un continuo accrescimento del vedere, un progresso della conoscenza consentito dal graduale affinamento dei sensi e delle facoltà mentali, fino alla visione di Dio, una compenetrazione con la Verità ultima delle cose, che non si può esprimere a parole; la scoperta finale dell’amore universale che ha generato tutte le realtà e le sostiene nell’esistenza.

Ma la Terra e il corpo sono sempre all’attenzione di Dante, il suo viaggio non lo allontana dalla realtà terrena: il protagonista guarda spesso in basso, al mondo che si è lasciato alle spalle, e può misurare la distanza dagli aspetti effimeri dell’esistenza temporale, che lui chiama “insensata cura dei mortali”. Solo così potrà ricevere un mandato preciso, quello di farsi poeta e tornare a raccontare, fino al limite dove si arresta la possibilità del linguaggio umano, continuamente sfidato e forzato, raffinato nel vocabolario e nel suono, sublimato nei latinismi, nelle citazioni bibliche e nei neologismi.

A cominciare dal “trasumanare” del primo canto, in cui Dante descrive il volo dall’Eden al cielo della Luna attraverso la sfera del fuoco: l’uomo trascende il limite della propria natura, entrando nella dimensione divina e adeguandosi a nuove leggi gravitazionali, dato che ormai libero dal peccato “cade” verso il proprio luogo naturale, verso l’alto.

Sta tornando, come tutte le cose create, verso Dio, come ad un porto, come alla propria patria.

Nell’ardua fatica del cammino e della scrittura del sacro poema non sarà solo: Apollo è umilmente invocato perché gli riempia l’animo di forza e virtù; il sorriso di Beatrice non verrà mai meno; per ultima la Vergine, ineludibile intermediaria perché si possa giungere al traguardo.

E mai invocazione più bella è stata scritta per Lei, perché il desiderio di chi cerca una grazia senza ricorrere alla Sua intercessione è un desiderio che pretende di volare senza ali.

Immagine: dalla ‘Divina Commedia’ di Alfonso d’Aragona. Londra, British Library. Manoscritto Yates, metà del XV secolo.

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