Da non confondere con Filippo il Bello, il Re di Francia (“il mal di Francia”, diceva Dante), che su richiesta di Papa Bonifacio VIII mandò il proprio fratello Carlo di Valois a Firenze per favorire la scalata al potere dei Guelfi Neri. I rapporti tra i due erano comunque molto tesi per questioni di supremazia e ingerenza di potere, comunicavano a suon di bolle e scomuniche e al culmine dell’attrito il guardasigilli del Re avrebbe schiaffeggiato il Pontefice assediato ad Anagni (oltraggio condannato da Dante nel “Purgatorio”: “Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso / e nel vicario suo Cristo esser catto / veggiolo un’altra volta esser deriso”, XX, 88 – 90).

Il Filippo del titolo invece, pare che uno schiaffo lo abbia tirato in faccia a Dante per le vie di Firenze. Si tratta di Filippo Cavicciuli della famiglia degli Adimari, detto Argenti per il vezzo di ferrare il suo cavallo con ferri d’argento. Era noto per comportamenti arroganti e prepotenti: Boccaccio riferisce che si divertiva a cavalcare per le strade a gambe aperte per prender a calci i passanti. Gli Adimari erano una potente famiglia di parte Nera, sembra che si siano sempre opposti al rientro di Dante dall’esilio e che abbiano anche in parte confiscato i suoi beni: erano una di quelle consorterie magnatizie che vantava la propria superiorità, e disprezzava semplici cittadini e piccoli nobili come gli Alighieri.

Una storia non di grandi passioni politiche, ma di angherie, di inimicizie e umiliazioni personali che si conclude nel cerchio infernale degli iracondi, dove Dante precipita l’Argenti, nelle acque nere e fangose della “morta gora”, il fiume Stige. Mentre Dante e Virgilio stanno attraversando la palude in barca, Filippo Argenti provoca il poeta; ne nasce una schermaglia aspra e incalzante, il dannato cerca di rovesciare la barca, ma è ricacciato indietro da Virgilio: “via costà con li altri cani, spirito maledetto”.

Dante vuole vederlo sprofondare nella “broda” e il maestro gli risponde che presto “godrà”. I peccatori dello Stige infatti, danno addosso all’Argenti e ne fanno strazio, così che il bizzarro individuo “in sé medesmo si volvea co’ denti”.

Virgilio loda Dante per la sua reazione e afferma che tutti gli arroganti staranno come “porci in brago”, nella melma per l’eternità. Il poeta si prende così la sua vendetta, ringraziando Dio per la soddisfazione che si è tolto.

Se qualcuno volesse sentire la versione dei fatti di Filippo Argenti, può ascoltare la canzone di Caparezza “Argenti vive”.

(“Inferno”, VIII, 31 – 63)

[Immagine, Priamo della Quercia, Filippo Argenti. British Library, miniatura del XV secolo]

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Claudia Cominoli

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Filippo il Bullo

Da non confondere con Filippo il Bello, il Re di Francia (“il mal di Francia”, diceva Dante), che su richiesta di Papa Bonifacio VIII mandò il proprio fratello Carlo di Valois a Firenze per favorire la scalata al potere dei Guelfi Neri. I rapporti tra i due erano comunque molto tesi per questioni di supremazia e ingerenza di potere, comunicavano a suon di bolle e scomuniche e al culmine dell’attrito il guardasigilli del Re avrebbe schiaffeggiato il Pontefice assediato ad Anagni (oltraggio condannato da Dante nel “Purgatorio”: “Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso / e nel vicario suo Cristo esser catto / veggiolo un’altra volta esser deriso”, XX, 88 – 90).

Il Filippo del titolo invece, pare che uno schiaffo lo abbia tirato in faccia a Dante per le vie di Firenze. Si tratta di Filippo Cavicciuli della famiglia degli Adimari, detto Argenti per il vezzo di ferrare il suo cavallo con ferri d’argento. Era noto per comportamenti arroganti e prepotenti: Boccaccio riferisce che si divertiva a cavalcare per le strade a gambe aperte per prender a calci i passanti. Gli Adimari erano una potente famiglia di parte Nera, sembra che si siano sempre opposti al rientro di Dante dall’esilio e che abbiano anche in parte confiscato i suoi beni: erano una di quelle consorterie magnatizie che vantava la propria superiorità, e disprezzava semplici cittadini e piccoli nobili come gli Alighieri.

Una storia non di grandi passioni politiche, ma di angherie, di inimicizie e umiliazioni personali che si conclude nel cerchio infernale degli iracondi, dove Dante precipita l’Argenti, nelle acque nere e fangose della “morta gora”, il fiume Stige. Mentre Dante e Virgilio stanno attraversando la palude in barca, Filippo Argenti provoca il poeta; ne nasce una schermaglia aspra e incalzante, il dannato cerca di rovesciare la barca, ma è ricacciato indietro da Virgilio: “via costà con li altri cani, spirito maledetto”.

Dante vuole vederlo sprofondare nella “broda” e il maestro gli risponde che presto “godrà”. I peccatori dello Stige infatti, danno addosso all’Argenti e ne fanno strazio, così che il bizzarro individuo “in sé medesmo si volvea co’ denti”.

Virgilio loda Dante per la sua reazione e afferma che tutti gli arroganti staranno come “porci in brago”, nella melma per l’eternità. Il poeta si prende così la sua vendetta, ringraziando Dio per la soddisfazione che si è tolto.

Se qualcuno volesse sentire la versione dei fatti di Filippo Argenti, può ascoltare la canzone di Caparezza “Argenti vive”.

(“Inferno”, VIII, 31 – 63)

[Immagine, Priamo della Quercia, Filippo Argenti. British Library, miniatura del XV secolo]

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