Se ci sono da denunciare vizi, avidità e corruzione Dante ha una terzina al veleno per tutti e non fa sconti a nessuno, nemmeno ai pontefici. Nonostante affermi di avere “reverenza per le somme chiavi”, con alcuni vicari di Cristo il poeta non va tanto per il sottile. Tra Adriano V che sconta l’avarizia e Martino V che “purga le anguille di Bolsena e la vernaccia, c’è spazio per un’apostrofe a Giovanni XXII citato come cinico profittatore che “guasta la vigna di Pietro”.

Per uno come Dante, che ha ben presente la rinuncia di San Francesco agli averi per una vita di povertà e la sua lotta insieme ai movimenti spirituali, in bilico tra eresia e santità, per restituire credibilità ad una Chiesa corrotta e riportarla nel solco dell’umiltà evangelica, è difficile tacere davanti ad una gerarchia ecclesiastica che fa del denaro, dei privilegi, dell’esercizio del potere temporale un obiettivo di vita: nel suo animo si mescolano dolore e rabbia, risentimento personale e un senso superiore di giustizia.

Perciò nel suo Inferno riserva un posto ai papi colpevoli di simonia, cioè abuso per fini personali del denaro riservato alla Chiesa, compravendita di beni e uffici non disgiunta da nepotismo per favorire i parenti. E’ una colpa infamante, perché se la cupidigia è il male più grave che corrompe l’uomo e gli impedisce la salvezza, diventa rovinosa se si insinua nella Chiesa, a cui è affidato il potere spirituale che è sostegno della pace e dell’ordine.

Nell’escogitare il contrappasso per i pontefici moralmente guasti Dante sfodera il suo genio. I simoniaci sono infilati uno dietro l’altro a testa in giù in strette buche nel terreno; man mano che giunge un nuovo dannato, gli altri sprofondano appiattiti nelle viscere della bolgia, e agli ultimi arrivati fuoriescono dall’imboccatura i polpacci e i piedi lambiti da una fiamma: capovolti, perché hanno sovvertito i valori; imbucati, perché hanno messo in borsa denaro; aureolati da un ironico fuoco di santità sulla parte meno nobile del corpo.

Dove sta la genialità di Dante? Intanto ci dice che per parlare con papa Niccolò III deve chinarsi come un frate che confessa un “perfido assassino”, un sicario, che a quei tempi veniva condannato a morte per soffocamento in una buca via via riempita di terra; non certo un paragone edificante per papa Orsini, per quanto consapevole di essere stato “sì cupido per avanzar gli orsatti”. Ma è memorabile l’idea di sfruttare l’agitazione furente di Niccolò III per prendersi la rivincita nei confronti di Bonifacio VIII, a cui deve l’esilio.

Papa Bonifacio non è ancora morto nel 1300, l’anno in cui Dante colloca il suo viaggio: Niccolò, che per la sua posizione non può vedere chi gli si è avvicinato, pensa che sia già arrivato colui che lo spingerà più giù nella fossa, un po’ in anticipo sul previsto, forse perché già stanco di fare strazio della sposa di Cristo: “Sei tu già costì ritto, Bonifazio? Sei tu sì tosto di quell’aver sazio?”. E dopo di lui, aggiunge, verrà un “pastor sanza legge, di più laida opra”, papa Clemente V che trasferirà la sede pontificia ad Avignone, asservendola agli interessi del Re di Francia.

Messa poi da parte la forte motivazione personale, Dante abbandona il sarcasmo e assume un tono indignato, richiamando i pontefici alla loro responsabilità e ricordando che Cristo non volle mai denaro da coloro che lo seguirono e che forse è proprio la Chiesa corrotta quella figura che nell’Apocalisse San Giovanni vede “puttaneggiar coi regi”.

Bonifacio è sufficientemente infamato: intrigante, amico dei banchieri, oppositore dell’Impero, infido, ma anche eretico e blasfemo, se diamo retta ai versi di Jacopone da Todi, un altro grande poeta del Trecento, che per questo finì in carcere.

In Dante il rancore personale lascia dunque posto all’amarezza, perché sono in tanti conficcati a testa in giù e il risentimento si trasforma in un dolore offeso per i troppi mali e il degrado morale che ricade sulla società intera: “la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi”.

[Immagine: Amos Nattini, Illustrazione per il canto XIX dell’Inferno. Società Editrice Dante, Milano 1931]

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I Papi a testa in giù

Se ci sono da denunciare vizi, avidità e corruzione Dante ha una terzina al veleno per tutti e non fa sconti a nessuno, nemmeno ai pontefici. Nonostante affermi di avere “reverenza per le somme chiavi”, con alcuni vicari di Cristo il poeta non va tanto per il sottile. Tra Adriano V che sconta l’avarizia e Martino V che “purga le anguille di Bolsena e la vernaccia, c’è spazio per un’apostrofe a Giovanni XXII citato come cinico profittatore che “guasta la vigna di Pietro”.

Per uno come Dante, che ha ben presente la rinuncia di San Francesco agli averi per una vita di povertà e la sua lotta insieme ai movimenti spirituali, in bilico tra eresia e santità, per restituire credibilità ad una Chiesa corrotta e riportarla nel solco dell’umiltà evangelica, è difficile tacere davanti ad una gerarchia ecclesiastica che fa del denaro, dei privilegi, dell’esercizio del potere temporale un obiettivo di vita: nel suo animo si mescolano dolore e rabbia, risentimento personale e un senso superiore di giustizia.

Perciò nel suo Inferno riserva un posto ai papi colpevoli di simonia, cioè abuso per fini personali del denaro riservato alla Chiesa, compravendita di beni e uffici non disgiunta da nepotismo per favorire i parenti. E’ una colpa infamante, perché se la cupidigia è il male più grave che corrompe l’uomo e gli impedisce la salvezza, diventa rovinosa se si insinua nella Chiesa, a cui è affidato il potere spirituale che è sostegno della pace e dell’ordine.

Nell’escogitare il contrappasso per i pontefici moralmente guasti Dante sfodera il suo genio. I simoniaci sono infilati uno dietro l’altro a testa in giù in strette buche nel terreno; man mano che giunge un nuovo dannato, gli altri sprofondano appiattiti nelle viscere della bolgia, e agli ultimi arrivati fuoriescono dall’imboccatura i polpacci e i piedi lambiti da una fiamma: capovolti, perché hanno sovvertito i valori; imbucati, perché hanno messo in borsa denaro; aureolati da un ironico fuoco di santità sulla parte meno nobile del corpo.

Dove sta la genialità di Dante? Intanto ci dice che per parlare con papa Niccolò III deve chinarsi come un frate che confessa un “perfido assassino”, un sicario, che a quei tempi veniva condannato a morte per soffocamento in una buca via via riempita di terra; non certo un paragone edificante per papa Orsini, per quanto consapevole di essere stato “sì cupido per avanzar gli orsatti”. Ma è memorabile l’idea di sfruttare l’agitazione furente di Niccolò III per prendersi la rivincita nei confronti di Bonifacio VIII, a cui deve l’esilio.

Papa Bonifacio non è ancora morto nel 1300, l’anno in cui Dante colloca il suo viaggio: Niccolò, che per la sua posizione non può vedere chi gli si è avvicinato, pensa che sia già arrivato colui che lo spingerà più giù nella fossa, un po’ in anticipo sul previsto, forse perché già stanco di fare strazio della sposa di Cristo: “Sei tu già costì ritto, Bonifazio? Sei tu sì tosto di quell’aver sazio?”. E dopo di lui, aggiunge, verrà un “pastor sanza legge, di più laida opra”, papa Clemente V che trasferirà la sede pontificia ad Avignone, asservendola agli interessi del Re di Francia.

Messa poi da parte la forte motivazione personale, Dante abbandona il sarcasmo e assume un tono indignato, richiamando i pontefici alla loro responsabilità e ricordando che Cristo non volle mai denaro da coloro che lo seguirono e che forse è proprio la Chiesa corrotta quella figura che nell’Apocalisse San Giovanni vede “puttaneggiar coi regi”.

Bonifacio è sufficientemente infamato: intrigante, amico dei banchieri, oppositore dell’Impero, infido, ma anche eretico e blasfemo, se diamo retta ai versi di Jacopone da Todi, un altro grande poeta del Trecento, che per questo finì in carcere.

In Dante il rancore personale lascia dunque posto all’amarezza, perché sono in tanti conficcati a testa in giù e il risentimento si trasforma in un dolore offeso per i troppi mali e il degrado morale che ricade sulla società intera: “la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi”.

[Immagine: Amos Nattini, Illustrazione per il canto XIX dell’Inferno. Società Editrice Dante, Milano 1931]

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