E’ in una luce crepuscolare che avviene il passaggio tra Malebolge e il IX cerchio, l’ultimo della voragine infernale e il più terribile nella sua tragica disumanità. Dante sente il suono acuto di un corno e gli sembra di scorgere una città circondata di torri, ma la lontananza e il buio ingannano gli occhi: si tratta di un pozzo profondo e intorno alle sue pareti dall’ombelico in su si sporgono dei giganti, emblemi della dismisura e della superbia dissennata degli uomini; Dante cerca di misurarne l’altezza, e il paragone è pur sempre con delle torri, quelle della cinta muraria di Monteriggioni e la Garisenda di Bologna.
Sono il gradino più basso della gerarchia dei guardiani infernali: immobilizzati, apatici e ottusi; nessuna intelligenza li connota a fronte della loro mole spropositata, sprofondati nelle viscere della terra per aver voluto accatastare montagne per avvicinarsi al cielo. Il poeta unisce Sacre Scritture e mito pagano e colloca nel pozzo Nembrot, l’architetto della Torre di Babele, che qui si agita e farfuglia parole che solo lui capisce; Fialte, che si scuote violentemente tentando di muovere le braccia che aveva alzato contro Zeus e l’Olimpo, fortunatamente bloccate da spesse catene. E infine Anteo, l’unico libero di muoversi, sulle cui enormi mani deve salire un angosciato Dante per essere deposto sul fondo del pozzo.
Il poeta lascia così l’ultima zona di frode e precipita in “un lago che per gelo / avea di vetro e non d’acqua sembiante”, alimentato dal fiume Cocito, dove sono imprigionati i traditori, induriti dal gelo dell’odio che nega l’amore e la vita: hanno infranto il vincolo naturale che lega gli uomini e la loro fiducia, lo hanno fatto con premeditazione tradendo i parenti, la patria, gli ospiti e i benefattori.
Non è un’impresa facile raccontare il “tristo buco” dell’universo e Dante chiede aiuto alle Muse perché gli forniscano “le rime aspre e chiocce”, i suoni duri e rauchi dell’unico livello stilistico adeguato ad esprimere la tremenda realtà del cuore umano che diventa pietra, sordo a qualsiasi sentimento.
Man mano che il poeta procede cresce l’orrore. Corpi lividi per il freddo, bocche che battono i denti, orecchie congelate che si staccano; alcuni dannati supini sono completamente intrappolati; chi riesce a tenere la testa fuori, ha i capelli aggrovigliati e irrigiditi e le lacrime si cristallizzano sul volto o nelle orbite, serrando dolorosamente le palpebre. Si lamentano, si esprimono con toni fastidiosi, ma nessuno vuole essere individuato e ricordato.
Le nostre corde più profondamente umane sono scosse dall’ultimo grande incontro dell’Inferno, quello con il conte Ugolino, sintesi del massimo dolore e del massimo odio, che rende incapace un padre di confortare i figli e lo trasforma in un cannibale che rode il cranio al suo nemico. Ma il lago è pieno di anime sommerse, e l’odio si attacca, tanto che dalla rabbia disumana non è esente nemmeno Dante: rimproverato da un dannato di avergli tirato un calcio in faccia, il poeta lo afferra per i capelli, strappandogliene una ciocca per costringerlo a rivelare la sua identità; la delazione di un altro svela il “perfido traditor” Bocca degli Abati, colui che nella Battaglia di Montaperti ha tradito i suoi concittadini. Ed è cinica e villana la promessa fatta, senza alcuna intenzione di mantenerla, di sciogliere le lacrime ghiacciate a Frate Alberigo, uccisore dei suoi ospiti.
Probabilmente esasperato dalla ferocia degli scontri e dei tradimenti della realtà comunale italiana, Dante escogita un’innovazione alle norme dell’aldilà: chi tradisce le leggi dell’ospitalità muore spiritualmente mentre compie l’atto, l’anima precipita subito nell’inferno, mentre il corpo continua a vivere.
E’ la condizione del nobile genovese Branca Doria che assassinò il suocero: mentre il suo spirito è già lì da qualche anno, il suo corpo “e mangia e bee e dorme e veste panni”.
Ironia della sorte, Branca Doria morì a più di 90 anni e sopravvisse a Dante, probabilmente leggendo divertito la condanna riservatagli.
Al Sommo Poeta non rimane altro che la soddisfazione di un’invettiva contro Genova, città di uomini pieni di “ogni magagna”, e si rammarica che non siano scomparsi dal mondo. Ma presto le parole gli muoiono in gola e l’orrore è destinato ad aumentare.
Sono le sette di sera del Sabato Santo. E lì a due passi c’è Lucifero.
[Immagine: F. Ferraris, Cocito, 1992]