In questi due anni di pandemia inferno e purgatorio sono diventati per noi una metafora delle nostre paure, oltre che di smarrimento, confusione e speranza: ci siamo affacciati ai balconi, affidando la nostra attesa di riscatto allo slogan “Andrà tutto bene” e confidando nella redenzione attraverso la promessa “di uscirne migliori”.

Ma già Italo Calvino nel 1972, alla fine del suo libro “Le città invisibili”, invitava il lettore a considerare l’inferno dei viventi “che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”, a riconoscere “ciò che inferno non è, e a farlo durare”. Quanto all’invenzione del purgatorio molti, anche nel Medioevo, l’hanno ritenuta il capolavoro politico ed economico di tutta la storia della Chiesa.

Il secondo regno infatti, nasce nel XII secolo per stemperare, con la dottrina del pentimento, la rigida bipartizione nella vita eterna tra beatitudine e dannazione, in linea con l’aspetto misericordioso del Dio neotestamentario mediato da Gesù Cristo: un fuoco che brucia gli effetti e il ricordo delle nostre imperfezioni, perché per presentarsi a Dio bisogna essere preparati. E la Chiesa cercò sempre in ogni modo di esercitare l’esclusivo controllo delle pratiche di espiazione tramite preghiere, liturgie, suffragi e indulgenze.

E se in tempi più recenti papa Giovanni Paolo II e dopo di lui Benedetto XVI hanno affermato che il purgatorio non è un luogo, ma una condizione dell’anima, uno stato di catarsi nell’amore di Cristo che solleva e guarisce dall’imperfezione, Dante invece lo ha plasmato nell’immaginario collettivo, ne parla sì, come di un processo di purificazione spirituale, ma al contempo ce lo ha descritto come uno spazio concreto, ricchissimo di dettagli.

E’ una bruna montagna che si erge, unica terra emersa, nell’emisfero australe interamente ricoperto dalle acque; sulla spiaggia antistante giungono le anime, trasportate via mare dalla foce del Tevere da un angelo nocchiero che cancella di colpo l’immagine del rabbioso Caronte: la luce sfavillante del messaggero celeste colpisce e riempie di meraviglia gli occhi di Dante, che non riesce però a sostenerne la vista troppo a lungo.

Da lì inizia il percorso di espiazione: prima una lunga sosta nell’antipurgatorio per i negligenti, coloro che si sono pentiti solo un istante prima di morire; poi si salgono sette cornici dove si scontano i sette peccati capitali, le colpe di un uso distorto dell’amore: quello rivolto al male genera superbia, invidia e ira; uno scarso amore del bene produce accidia; avarizia, gola e lussuria sono la conseguenza di uno smodato amore per i beni terreni.

Sulla cima della montagna è collocato l’Eden, il luogo dell’innocenza e della felicità, perduto per il peccato di Adamo ed Eva: lì le anime, bevendo alle acque dei fiumi Letè ed Eunoè, dimenticano il peccato, cancellano ogni traccia delle loro colpe e acquistano la beatitudine.

Dante vi trascorre tre giorni, che incominciano nel segno della Pasqua di resurrezione, un percorso illuminato dalle sfumature del giorno, dall’alba al tramonto, scandito da gesti liturgici, preghiere e canti, atti di espiazione dura e dolorosa, ma anche di esaltazione delle virtù opposte ai vizi.

A dirlo così sembrerebbe noioso, dopo le risse e le mostruose metamorfosi dell’inferno, le urla, i lamenti, le bestemmie dei dannati, la condizione commovente o tragica di grandi personalità. E invece gli incontri di Dante nel purgatorio ripropongono caratteristiche importanti dell’uomo comune nella sua vita quotidiana: solidarietà e amicizia, passioni e scelte, ambizione e disperazione, potere ed esilio.

Non manca lo spazio per l’invettiva politica e torna, prepotente, l’amore: Dante perde Virgilio e si dispera piangendo, ma ritrova la sua Beatrice, ormai “puro e disposto a salire a le stelle”.

Forse per noi è un po’ difficile capire che il tempo nel purgatorio trascorre, ma non avvicina alla morte; siamo più inclini ad interpretarlo come una metafora della nostra vita piena di attese e di transitorietà.

L’uomo non è fatto per l’eternità, che sia infernale o paradisiaca: proprio per questo il purgatorio è il luogo più umano.

[Immagine: Domenico di Michelino, La montagna del Purgatorio, particolare da Dante Alighieri e i regni dell’oltretomba, 1465 (Firenze, Santa Maria del Fiore).]

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Il secondo regno

In questi due anni di pandemia inferno e purgatorio sono diventati per noi una metafora delle nostre paure, oltre che di smarrimento, confusione e speranza: ci siamo affacciati ai balconi, affidando la nostra attesa di riscatto allo slogan “Andrà tutto bene” e confidando nella redenzione attraverso la promessa “di uscirne migliori”.

Ma già Italo Calvino nel 1972, alla fine del suo libro “Le città invisibili”, invitava il lettore a considerare l’inferno dei viventi “che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”, a riconoscere “ciò che inferno non è, e a farlo durare”. Quanto all’invenzione del purgatorio molti, anche nel Medioevo, l’hanno ritenuta il capolavoro politico ed economico di tutta la storia della Chiesa.

Il secondo regno infatti, nasce nel XII secolo per stemperare, con la dottrina del pentimento, la rigida bipartizione nella vita eterna tra beatitudine e dannazione, in linea con l’aspetto misericordioso del Dio neotestamentario mediato da Gesù Cristo: un fuoco che brucia gli effetti e il ricordo delle nostre imperfezioni, perché per presentarsi a Dio bisogna essere preparati. E la Chiesa cercò sempre in ogni modo di esercitare l’esclusivo controllo delle pratiche di espiazione tramite preghiere, liturgie, suffragi e indulgenze.

E se in tempi più recenti papa Giovanni Paolo II e dopo di lui Benedetto XVI hanno affermato che il purgatorio non è un luogo, ma una condizione dell’anima, uno stato di catarsi nell’amore di Cristo che solleva e guarisce dall’imperfezione, Dante invece lo ha plasmato nell’immaginario collettivo, ne parla sì, come di un processo di purificazione spirituale, ma al contempo ce lo ha descritto come uno spazio concreto, ricchissimo di dettagli.

E’ una bruna montagna che si erge, unica terra emersa, nell’emisfero australe interamente ricoperto dalle acque; sulla spiaggia antistante giungono le anime, trasportate via mare dalla foce del Tevere da un angelo nocchiero che cancella di colpo l’immagine del rabbioso Caronte: la luce sfavillante del messaggero celeste colpisce e riempie di meraviglia gli occhi di Dante, che non riesce però a sostenerne la vista troppo a lungo.

Da lì inizia il percorso di espiazione: prima una lunga sosta nell’antipurgatorio per i negligenti, coloro che si sono pentiti solo un istante prima di morire; poi si salgono sette cornici dove si scontano i sette peccati capitali, le colpe di un uso distorto dell’amore: quello rivolto al male genera superbia, invidia e ira; uno scarso amore del bene produce accidia; avarizia, gola e lussuria sono la conseguenza di uno smodato amore per i beni terreni.

Sulla cima della montagna è collocato l’Eden, il luogo dell’innocenza e della felicità, perduto per il peccato di Adamo ed Eva: lì le anime, bevendo alle acque dei fiumi Letè ed Eunoè, dimenticano il peccato, cancellano ogni traccia delle loro colpe e acquistano la beatitudine.

Dante vi trascorre tre giorni, che incominciano nel segno della Pasqua di resurrezione, un percorso illuminato dalle sfumature del giorno, dall’alba al tramonto, scandito da gesti liturgici, preghiere e canti, atti di espiazione dura e dolorosa, ma anche di esaltazione delle virtù opposte ai vizi.

A dirlo così sembrerebbe noioso, dopo le risse e le mostruose metamorfosi dell’inferno, le urla, i lamenti, le bestemmie dei dannati, la condizione commovente o tragica di grandi personalità. E invece gli incontri di Dante nel purgatorio ripropongono caratteristiche importanti dell’uomo comune nella sua vita quotidiana: solidarietà e amicizia, passioni e scelte, ambizione e disperazione, potere ed esilio.

Non manca lo spazio per l’invettiva politica e torna, prepotente, l’amore: Dante perde Virgilio e si dispera piangendo, ma ritrova la sua Beatrice, ormai “puro e disposto a salire a le stelle”.

Forse per noi è un po’ difficile capire che il tempo nel purgatorio trascorre, ma non avvicina alla morte; siamo più inclini ad interpretarlo come una metafora della nostra vita piena di attese e di transitorietà.

L’uomo non è fatto per l’eternità, che sia infernale o paradisiaca: proprio per questo il purgatorio è il luogo più umano.

[Immagine: Domenico di Michelino, La montagna del Purgatorio, particolare da Dante Alighieri e i regni dell’oltretomba, 1465 (Firenze, Santa Maria del Fiore).]

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