Dante avrebbe certo approvato le considerazioni di Antonio Gramsci esposte su “La città futura” nel febbraio 1917: “Odio gli indifferenti. Vivere significa partecipare. Chi vive veramente non può non essere cittadino. Chi lascia che le cose accadano senza prendere posizione non può essere considerato vivo”.

Li avete riconosciuti? Sono gli ignavi. Il Sommo Poeta non li considera degni né della misericordia né della giustizia divina, sono rifiutati dall’Inferno, relegati in una condizione così spregevole da invidiare tutti gli altri dannati: “questi sciaurati, che mai non fuor vivi” ebbero “una cieca vita tanto bassa” che Dante li vuole eternamente all’inseguimento di una bandiera, nudi e punti da mosconi e vespe; il loro sangue mescolato alle loro lacrime cade ai piedi e nutre luridi vermi. E’ esclusa ogni forma di pietà, sono indegni persino di essere identificati per nome, quasi a segnalare l’abissale distanza tra il loro ideale di opaco e quieto vivere e quello del poeta, sempre pronto a schierarsi e a rischiare.

E’ una condanna senza tempo quella di Dante, per una categoria di persone in cui forse lui, già nel XIV secolo, aveva intuito si potesse riconoscere l’indole di un popolo, di un individuo medio che con la sua scelta di non scegliere vanifica l’esercizio dei diritti, i tentativi di chi spera e crede di poter contribuire al bene comune: insomma, terra sterile che non genera nulla, il peso morto della società, attento a preservare un’esistenza “sanza ‘nfamia e sanza lodo”.

L’ignavia diffusa, inodore e incolore, è spesso oggi mascherata da lucido distacco o da un rassegnato malcontento di facciata, anche se porta spesso a salire sul carro del vincitore o a ignorare gli esiti di un conflitto perché è lontano, ma continua ad essere strutturata sulla negazione e sull’assenza: di stimoli, di volontà, di passioni, di ogni moto dell’anima che spinga ad agire con coerenza, a sporcarsi le mani.

Anche oggi, come tanto tempo fa al di qua dell’Acheronte, è sempre valida la lapidaria e ormai proverbiale formula con cui Virgilio suggella il torpore e l’inerzia dei vili di ogni tempo: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”

[Immagine: Maestro senese, Gli ignavi. Miniatura dal codice Yates Thompson, 1450. Londra, British Library]

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Odio gli indifferenti

Dante avrebbe certo approvato le considerazioni di Antonio Gramsci esposte su “La città futura” nel febbraio 1917: “Odio gli indifferenti. Vivere significa partecipare. Chi vive veramente non può non essere cittadino. Chi lascia che le cose accadano senza prendere posizione non può essere considerato vivo”. Li avete riconosciuti? Sono gli ignavi. Il Sommo Poeta non li considera degni né della misericordia né della giustizia divina, sono rifiutati dall’Inferno, relegati in una condizione così spregevole da invidiare tutti gli altri dannati: “questi sciaurati, che mai non fuor vivi” ebbero “una cieca vita tanto bassa” che Dante li vuole eternamente all’inseguimento di una bandiera, nudi e punti da mosconi e vespe; il loro sangue mescolato alle loro lacrime cade ai piedi e nutre luridi vermi. E’ esclusa ogni forma di pietà, sono indegni persino di essere identificati per nome, quasi a segnalare l’abissale distanza tra il loro ideale di opaco e quieto vivere e quello del poeta, sempre pronto a schierarsi e a rischiare. E’ una condanna senza tempo quella di Dante, per una categoria di persone in cui forse lui, già nel XIV secolo, aveva intuito si potesse riconoscere l’indole di un popolo, di un individuo medio che con la sua scelta di non scegliere vanifica l’esercizio dei diritti, i tentativi di chi spera e crede di poter contribuire al bene comune: insomma, terra sterile che non genera nulla, il peso morto della società, attento a preservare un’esistenza “sanza ‘nfamia e sanza lodo”. L’ignavia diffusa, inodore e incolore, è spesso oggi mascherata da lucido distacco o da un rassegnato malcontento di facciata, anche se porta spesso a salire sul carro del vincitore o a ignorare gli esiti di un conflitto perché è lontano, ma continua ad essere strutturata sulla negazione e sull’assenza: di stimoli, di volontà, di passioni, di ogni moto dell’anima che spinga ad agire con coerenza, a sporcarsi le mani. Anche oggi, come tanto tempo fa al di qua dell’Acheronte, è sempre valida la lapidaria e ormai proverbiale formula con cui Virgilio suggella il torpore e l’inerzia dei vili di ogni tempo: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa” [Immagine: Maestro senese, Gli ignavi. Miniatura dal codice Yates Thompson, 1450. Londra, British Library]

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