L’atmosfera luminosa che accoglie Dante appena uscito dall’inferno, la certezza di aver ritrovato la diritta via che conduce all’Eden, gli incontri nel segno dei dolci ricordi terreni non devono trarre in inganno i lettori dei primi canti dell’antipurgatorio: le anime che il poeta vede sono pur sempre quelle di peccatori che devono espiare.

L’elenco dei morti scomunicati e dei morti per forza ci riporta immediatamente nel clima agitato e violento delle lotte della realtà comunale e delle faide famigliari; né dobbiamo pensare che Dante si limiti da qui in poi ad invitarci a pregare per le anime, per abbreviarne il percorso di purificazione, o che abbia esaurito tra i gironi infernali il suo spirito polemico al servizio della denuncia di qualsiasi forma di corruzione.

La più celebre invettiva politica della “Commedia” si trova nel canto VI della seconda cantica, vibrante di sdegno e dolore, costruita con parole dure e piene di amarezza: contro un’Italia non più dominatrice di popoli, ma divenuta un luogo di corruzione, ‘bordello’, paragonata ad una nave senza timoniere in balìa di una tempesta. L’esilio ha consentito a Dante di conoscere una realtà di caos e degrado, sa che ‘le città d’Italia son piene di tiranni’.

A cominciare da Firenze, città maledetta e amata, il ‘bell’ovile ov’io dormìi agnello’: nell’inferno il poeta ha incontrato i fiorentini tra gli ipocriti e i ladri; l’anima di Ciacco l’ha definita una ‘città partita’, divisa dalle ‘tre faville’ di superbia, invidia e avarizia, anzi ‘piena d’invidia sì che già trabocca il sacco’. E una volta toccato il culmine dell’invettiva contro i responsabili del disordine dell’Italia, Dante cambia registro e con tono dolorosamente sarcastico ci regala un ritratto poco edificante della sua città e dei suoi abitanti, concludendo l’appassionato discorso con la similitudine tra Firenze e una donna malata che si rigira affannosamente nel letto per trovare sollievo ai suoi dolori.

Ma ce n’è per tutti, durante il viaggio. Buona parte degli abitanti della Toscana, nella valle in cui scorre l’Arno, sono vili come bestie, ‘brutti porci’ più degni di nutrirsi di ghiande che di cibo adatto agli uomini; gli aretini sono ‘botoli’, piccoli e fastidiosi cani; di nuovo i fiorentini sono ‘avidi lupi’, ma devono sopportare il ‘puzzo’ di governanti corrotti, che hanno ‘l’occhio aguzzo’ per individuare fonti di guadagno disonesto; i pisani sono maliziosi, ‘volpi sì piene di froda’.

Genova è una patria di traditori, colmi ‘di ogni magagna’; le città della Romagna sono dominate da violenza e tirannide; Roma non è da meno, anzi è il Papa ad essere un esempio degenere, che guida una Chiesa corrotta.

La cruda espressività infernale torna a disegnare una mappa geografica e morale del malcostume nazionale. Pur lontani ed estranei alla visione politica del Trecento e di Dante, avvertiamo tuttavia la portata universale del suo messaggio: e non solo perché il poeta è il primo a sentire che quel territorio è il nostro ‘loco natìo’, a pensarlo come sede di uomini che condividono una lingua, costumi e una cultura.

Il lamento sulla ‘serva Italia’ non finisce con Dante, ma continua a causa della faziosità degli interessi che impediscono una giusta e onesta vita sociale, la brama di potere fine a se stesso, la preminenza data al denaro come metro di giudizio della persona. Ma forse non ha mai trovato parole così amare e potenti come in questo poema.

[Immagine: A. Lorenzetti, Allegoria del cattivo governo. Palazzo pubblico di Siena, 1338 – 1339]

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Porci e botoli

L’atmosfera luminosa che accoglie Dante appena uscito dall’inferno, la certezza di aver ritrovato la diritta via che conduce all’Eden, gli incontri nel segno dei dolci ricordi terreni non devono trarre in inganno i lettori dei primi canti dell’antipurgatorio: le anime che il poeta vede sono pur sempre quelle di peccatori che devono espiare.

L’elenco dei morti scomunicati e dei morti per forza ci riporta immediatamente nel clima agitato e violento delle lotte della realtà comunale e delle faide famigliari; né dobbiamo pensare che Dante si limiti da qui in poi ad invitarci a pregare per le anime, per abbreviarne il percorso di purificazione, o che abbia esaurito tra i gironi infernali il suo spirito polemico al servizio della denuncia di qualsiasi forma di corruzione.

La più celebre invettiva politica della “Commedia” si trova nel canto VI della seconda cantica, vibrante di sdegno e dolore, costruita con parole dure e piene di amarezza: contro un’Italia non più dominatrice di popoli, ma divenuta un luogo di corruzione, ‘bordello’, paragonata ad una nave senza timoniere in balìa di una tempesta. L’esilio ha consentito a Dante di conoscere una realtà di caos e degrado, sa che ‘le città d’Italia son piene di tiranni’.

A cominciare da Firenze, città maledetta e amata, il ‘bell’ovile ov’io dormìi agnello’: nell’inferno il poeta ha incontrato i fiorentini tra gli ipocriti e i ladri; l’anima di Ciacco l’ha definita una ‘città partita’, divisa dalle ‘tre faville’ di superbia, invidia e avarizia, anzi ‘piena d’invidia sì che già trabocca il sacco’. E una volta toccato il culmine dell’invettiva contro i responsabili del disordine dell’Italia, Dante cambia registro e con tono dolorosamente sarcastico ci regala un ritratto poco edificante della sua città e dei suoi abitanti, concludendo l’appassionato discorso con la similitudine tra Firenze e una donna malata che si rigira affannosamente nel letto per trovare sollievo ai suoi dolori.

Ma ce n’è per tutti, durante il viaggio. Buona parte degli abitanti della Toscana, nella valle in cui scorre l’Arno, sono vili come bestie, ‘brutti porci’ più degni di nutrirsi di ghiande che di cibo adatto agli uomini; gli aretini sono ‘botoli’, piccoli e fastidiosi cani; di nuovo i fiorentini sono ‘avidi lupi’, ma devono sopportare il ‘puzzo’ di governanti corrotti, che hanno ‘l’occhio aguzzo’ per individuare fonti di guadagno disonesto; i pisani sono maliziosi, ‘volpi sì piene di froda’.

Genova è una patria di traditori, colmi ‘di ogni magagna’; le città della Romagna sono dominate da violenza e tirannide; Roma non è da meno, anzi è il Papa ad essere un esempio degenere, che guida una Chiesa corrotta.

La cruda espressività infernale torna a disegnare una mappa geografica e morale del malcostume nazionale. Pur lontani ed estranei alla visione politica del Trecento e di Dante, avvertiamo tuttavia la portata universale del suo messaggio: e non solo perché il poeta è il primo a sentire che quel territorio è il nostro ‘loco natìo’, a pensarlo come sede di uomini che condividono una lingua, costumi e una cultura.

Il lamento sulla ‘serva Italia’ non finisce con Dante, ma continua a causa della faziosità degli interessi che impediscono una giusta e onesta vita sociale, la brama di potere fine a se stesso, la preminenza data al denaro come metro di giudizio della persona. Ma forse non ha mai trovato parole così amare e potenti come in questo poema.

[Immagine: A. Lorenzetti, Allegoria del cattivo governo. Palazzo pubblico di Siena, 1338 – 1339]

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