Oltre a quella oscura in cui smarrisce la diritta via, c’è un’altra selva che Dante attraversa lungo il tragitto all’inferno. Se la prima “selvaggia e aspra e forte” gli procura angoscia solo a ricordarla, nel secondo girone del settimo cerchio si avverte una tensione inquieta di fronte ad un intricato groviglio di pruni “che da neun sentiero era segnato”: non è una vegetazione bella e rigogliosa, di fronde verdi e fitte, ma una boscaglia di “aspri sterpi e folti / rami nodosi e ‘nvolti / stecchi con tosco”.

Il poeta ode dei lamenti, ma non vede nessuno se non le mostruose Arpie appollaiate sui rami. E’ di nuovo confuso, Virgilio lo invita a strappare uno di quei ramoscelli e allora la confusione diventa orrore quando dalla scheggia rotta vede sgorgare sangue misto a voce: “Perchè mi scerpi?”

Il grido è l’unico indizio di vita umana in questo lugubre bosco: trasformarsi in un essere vegetale è l’atroce contrappasso di coloro che si sono tolti la vita, chiusi in un carcere da cui vorrebbero uscire, ma non possono, obbligati all’immobilità delle piante, perché svelsero l’anima dal corpo infrangendo l’unità della persona umana e la volontà di Dio.

Per Dante e la cristianità non si tratta di un’eroica scelta di libertà, un esempio di fortezza da preferire al disonore, ma di un disperato rifiuto dell’amore per la vita e per Dio. Un atto di violenza.

La massima tensione del racconto corrisponde alla rivelazione dell’identità di quella voce che ha protestato il suo dolore e rivela che “uomini fummo, e or siam fatti sterpi”.

Pier delle Vigne era stato un grande esponente della Scuola siciliana, la prima esperienza poetica prodotta nella nostra lingua, dignitario di corte e confidente di Federico II di Svevia, caduto in disgrazia per l’invidia di cui fu fatto oggetto da parte degli altri cortigiani. Colui che tenne “ambo le chiavi del cor di Federigo”, infiammò contro di sé gli animi di tutti. Inquinata dall’accusa di tradimento, avviluppata nel groviglio di un’errata valutazione della fama terrena e della dignità perduta e di un orgoglio smisurato, che pretende di rispondere all’invidia con il disprezzo, la sua anima disgregata lo portò a compiere la più grave delle ingiurie per dimostrare la sua dedizione e fedeltà.

Le stesse che Dante ha speso per Firenze, ricevendone in cambio la medesima moneta, e chissà se anche lui si è trovato sull’orlo della disperazione.

Le qualità morali e culturali di Pier delle Vigne emergono da un ritratto anche linguisticamente solenne. Si esprime con sforzo, ma parla bene: fa sfoggio di artifici retorici, antitesi, perifrasi, suoni aspri e termini eleganti che rivelano la raffinatezza del suo eloquio, ma tradiscono la sua disarmonia e confusione.

Il tronco soffia forte ancora un’ultima volta per spiegare che la resurrezione della carne non porterà gioia ai suicidi, ma nuovo orrore: rimarranno privi del corpo anche dopo il Giudizio universale, ne andranno in cerca, lo trascineranno nella selva e lo appenderanno “ciascun al pruno de l’anima sua molesta”.

Corpi vuoti penzolanti per l’eternità.

Risuona qui più che altrove la capacità di Dante di sentire il cuore umano, di entrare nelle pieghe lacerate e straziate dell’anima, nel punto in cui a volte si spegne la nostra resistenza.

Ma anche a lui mancano le parole: “Tanta pietà mi accora”.

[Immagine: William Blake, La selva dei suicidi con le Arpie, 1826. Londra, Tate Britain. Liceo Classico e Linguistico Carlo Alberto – Novara]

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Un bosco di morte

Oltre a quella oscura in cui smarrisce la diritta via, c’è un’altra selva che Dante attraversa lungo il tragitto all’inferno. Se la prima “selvaggia e aspra e forte” gli procura angoscia solo a ricordarla, nel secondo girone del settimo cerchio si avverte una tensione inquieta di fronte ad un intricato groviglio di pruni “che da neun sentiero era segnato”: non è una vegetazione bella e rigogliosa, di fronde verdi e fitte, ma una boscaglia di “aspri sterpi e folti / rami nodosi e ‘nvolti / stecchi con tosco”.

Il poeta ode dei lamenti, ma non vede nessuno se non le mostruose Arpie appollaiate sui rami. E’ di nuovo confuso, Virgilio lo invita a strappare uno di quei ramoscelli e allora la confusione diventa orrore quando dalla scheggia rotta vede sgorgare sangue misto a voce: “Perchè mi scerpi?”

Il grido è l’unico indizio di vita umana in questo lugubre bosco: trasformarsi in un essere vegetale è l’atroce contrappasso di coloro che si sono tolti la vita, chiusi in un carcere da cui vorrebbero uscire, ma non possono, obbligati all’immobilità delle piante, perché svelsero l’anima dal corpo infrangendo l’unità della persona umana e la volontà di Dio.

Per Dante e la cristianità non si tratta di un’eroica scelta di libertà, un esempio di fortezza da preferire al disonore, ma di un disperato rifiuto dell’amore per la vita e per Dio. Un atto di violenza.

La massima tensione del racconto corrisponde alla rivelazione dell’identità di quella voce che ha protestato il suo dolore e rivela che “uomini fummo, e or siam fatti sterpi”.

Pier delle Vigne era stato un grande esponente della Scuola siciliana, la prima esperienza poetica prodotta nella nostra lingua, dignitario di corte e confidente di Federico II di Svevia, caduto in disgrazia per l’invidia di cui fu fatto oggetto da parte degli altri cortigiani. Colui che tenne “ambo le chiavi del cor di Federigo”, infiammò contro di sé gli animi di tutti. Inquinata dall’accusa di tradimento, avviluppata nel groviglio di un’errata valutazione della fama terrena e della dignità perduta e di un orgoglio smisurato, che pretende di rispondere all’invidia con il disprezzo, la sua anima disgregata lo portò a compiere la più grave delle ingiurie per dimostrare la sua dedizione e fedeltà.

Le stesse che Dante ha speso per Firenze, ricevendone in cambio la medesima moneta, e chissà se anche lui si è trovato sull’orlo della disperazione.

Le qualità morali e culturali di Pier delle Vigne emergono da un ritratto anche linguisticamente solenne. Si esprime con sforzo, ma parla bene: fa sfoggio di artifici retorici, antitesi, perifrasi, suoni aspri e termini eleganti che rivelano la raffinatezza del suo eloquio, ma tradiscono la sua disarmonia e confusione.

Il tronco soffia forte ancora un’ultima volta per spiegare che la resurrezione della carne non porterà gioia ai suicidi, ma nuovo orrore: rimarranno privi del corpo anche dopo il Giudizio universale, ne andranno in cerca, lo trascineranno nella selva e lo appenderanno “ciascun al pruno de l’anima sua molesta”.

Corpi vuoti penzolanti per l’eternità.

Risuona qui più che altrove la capacità di Dante di sentire il cuore umano, di entrare nelle pieghe lacerate e straziate dell’anima, nel punto in cui a volte si spegne la nostra resistenza.

Ma anche a lui mancano le parole: “Tanta pietà mi accora”.

[Immagine: William Blake, La selva dei suicidi con le Arpie, 1826. Londra, Tate Britain. Liceo Classico e Linguistico Carlo Alberto – Novara]

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