Punto cruciale del viaggio è il momento solenne che segna il confine tra i due mondi, quello terrestre e quello celeste, in cui avviene il passaggio di consegne tra le due guide di Dante: Virgilio, il dolcissimo padre che lo ha soccorso nella selva oscura, lo ha protetto col suo corpo nei punti più ardui e pericolosi; e Beatrice, la donna amata in terra da cui è nata l’idea stessa del viaggio nell’aldilà.
Dante è alle soglie dal giardino dell’Eden, sulla cima della montagna; sosta al di qua del fiume Lete, immergendosi nel quale porterà a compimento la sua purificazione, recuperando così l’originaria condizione di innocenza, quella perduta da Adamo ed Eva con il peccato originale. Soltanto dopo questo ultimo passo, sarà ‘puro e disposto a salire alle stelle’, pronto per entrare in una dimensione altra rispetto a quella terrena, pronto all’evento per il quale ha coniato il verbo ‘trasumanare’, oltrepassare la condizione umana, che ci racconterà nel primo canto del paradiso.
L’uomo, sia pure perfetto, appartiene a un tempo e a una realtà che senza la fede non possono essere superati. Per questo Dante, ancor prima di varcare il fiume, deve vivere un doloroso distacco da colui che lo ha guidato fino alla cima della montagna.
Virgilio tiene la scena del canto 30 del purgatorio, anche se Dante vive qui una doppia dolorosa emozione: la perdita del suo ‘dolce duca’ e il ritrovamento non meno sofferto della sua musa.
Dante si accorge della scomparsa quando ormai Virgilio se n’è già andato: il suo maestro e autore, quello da cui ha imparato ‘lo bello stilo che m’ha fatto onore’, quello che lo ha sostenuto di fronte ai castighi infernali, è sparito senza un abbraccio, senza un addio proprio quando il sommo poeta si volta per cercare ancora il suo sostegno: colpito dalla forza devastante del ritorno di Beatrice, tremante e smarrito pur avendola solo intravista, ha bisogno di chiedergli cosa stia succedendo, ha bisogno di dirgli ciò che sta provando.
“Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die’mi”.
Eppure le ultime parole che il poeta latino aveva pronunciato avrebbero dovuto metter Dante sull’avviso: “se’ venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno. / Non aspettar mio dir più né un cenno /…libero, dritto e sano è tuo arbitrio…io te sovra te corono e mitrio”. E’ diventato signore di se stesso.
La ragione lascia il campo alla Fede e alla Teologia: Virgilio ha condotto il suo pupillo dove la parola poetica e la ragione umana possono arrivare; gli è stato maestro di poesia e umanità, in ciò che di meglio gli esseri umani hanno saputo fare e ottenere con le proprie forze, senza la grazia illuminante di Dio.
Virgilio è tornato nel limbo, ‘tra color che son sospesi’, nell’unico spazio infernale dove non risuonano lamenti, ma ci si strugge per il desiderio del paradiso, e dove Dante immagina un castello rischiarato dalla luce in cui risiedono gli ‘spiriti magni’: il poeta riconosce il limite della sapienza e dell’intelletto umano, ma anche la sua grandezza; riconosce il fondamentale e irrinunciabile compito di guida che la conoscenza razionale ha nel segnare la via della salvezza, e paga un debito che il mondo ha contratto con la cultura pagana e i suoi autori, appassionati creatori di verità e bellezza.
E’ difficile scegliere tra i versi dell’intera Commedia quelli più commoventi, ce ne sono davvero tanti in tutte le cantiche. Io però ho sempre prediletto quelli in cui Dante piange per la perdita di Virgilio; pur avendo davanti la donna tanto amata, l’antico amore, e intorno tutta la bellezza del paradiso terrestre, non può trattenersi: “né quantunque perdeo l’antica matre / valse a la guance nette di rugiada / che, lagrimando, non tornasser atre”.
E c’è un lungo intervallo di solitudine, prima che il poeta possa rivedere Beatrice.
[Immagine: Simone Martini, Frontespizio del manoscritto virgiliano appartenuto a Petrarca, 1336. Milano, Biblioteca ambrosiana]