Il tempo che il Covid ha portato via dalle nostre vite ci ha insegnato che la sofferenza è parte della condizione umana e, del tutto impreparati, siamo stati costretti a farle spazio nella nostra quotidianità facendola accomodare al nostro fianco sotto forma di paura. Ci siamo fatti da parte dentro noi stessi nascondendo il dolore, facendo finta che le angosce fossero la normalità e perdendo qualunque forma di ambizione. A questo punto non sappiamo più a che santo votarci.
La nostra vita non è fatta per essere rinchiusa in una prigionia di inquietudini. Lo abbiamo imparato in oltre un anno di pandemia, o forse, dopo un anno da quando ci è stato chiesto di staccare la spina delle emozioni per concentrarci su sacrifici che, ci garantivano, non sarebbero stati vani.
Per il secondo anno consecutivo, però, viviamo una Pasqua in lockdown che, ancora una volta, ci riunisce, credenti e non, in una sola certezza: siamo tutti testimoni di sopravvivenza, ognuno con il proprio lutto e la propria disperazione. Non possiamo continuare a scavalcare il dolore mettendo pezze alle lesioni provocate dalla mancanza di unione e socialità. È per questo che pretendiamo serietà e presenza da parte delle istituzioni, finora zoppicanti e impreparate, condizioni inaccettabili a un anno dall’emergenza. Con dei sostegni insufficienti e una campagna vaccinale ferma in salita, la sola speranza è quella di un passo avanti della scienza che ci permetta di guardare al futuro con sicurezza e pianificazione.
Ieri papa Francesco ha detto che «è possibile ricominciare anche dalle macerie». Un passo di responsabilità interiore che ci riguarda tutti con l’auspicio che nessuna lacrima vada perduta e nessuna protesta rimanga inascoltata.