Insegnante dell’Upo nel team della ministra Cartabia. Serena Quattrocolo, professoressa ordinaria di Diritto processuale penale e dirige il Dipartimento di giurisprudenza e scienze politiche, economiche e sociali dell’Università del Piemonte Orientale, nei giorni scorsi è stata indicata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia come componente del pool di esperti, presieduto dall’ex presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, che avrà il compito di ridefinire le regole del processo penale.
Le abbiamo fatto alcune domande sul suo nuovo incarico.
Professoressa Quattrocolo, la ministra Marta Cartabia è molto determinata a lasciare un segno riformatore profondo per il suo mandato di guardasigilli. Una sfida che ora coinvolge anche Lei e di riflesso la nostra Università.
La ministra aveva già presentato, a inizio settimana, delle linee di intervento che ispireranno la sua azione e ieri, 18 marzo, ha voluto partecipare alla seduta di insediamento della commissione. Con pragmatismo e lungimiranza, ha indicato un percorso che, partendo dall’esistente, ovvero il disegno di legge 2435, a firma del precedente Ministro, possa portare alla rapida approvazione di una legge di delega che fissi i punti fermi di una riforma che sarà poi dettagliatamente delineata dai decreti delegati. In questo sforzo, la commissione riunisce avvocati, magistrati e professori universitari; a questi ultimi spetta il ruolo, in cui io credo molto, di ‘guardiani del sistema’. I professionisti portano la loro visione e la preziosa esperienza delle categorie cui appartengono, mentre a noi sta il compito di verificare che i principi fondamentali del processo penale e la coerenza del sistema rimangano integri, o che siano ripristinati laddove i tanti, disordinati interventi novellistici li hanno compromessi.
La riforma della giustizia è uno di quegli argomenti che periodicamente, e in maniera molto trasversale, riempiono le pagine dei quotidiani; la sensazione, tuttavia, è sempre quella di un’opera incompiuta in cui i processi sono infiniti, le carceri eccessivamente affollate e la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario a livelli bassissimi. Quali sono le munizioni che questa nuova Commissione ha a disposizione per invertire la rotta?
È assolutamente vero. Il livello di fiducia nella giustizia penale, non solo da parte dei cittadini, ma anche degli operatori del settore, è oggi troppo basso. Le proposte che usciranno dalla commissione saranno basate anche sui molti studi e progetti che sono già stati presentati negli scorsi anni. Una riforma così incisiva deve essere il connubio tra le soluzioni ‘tecniche’ che università, avvocatura e magistratura possono insieme suggerire e la volontà politica, che deve fare proprie queste proposte. Questo è spesso l’anello debole della catena. Le proposte per la legge di delega verteranno su alcuni profili nodali, tra i quali la natura dell’udienza preliminare, l’ambito di accesso ai riti alternativi, ma anche il sistema sanzionatorio e, naturalmente, la prescrizione del reato, sulla quale l’attenzione è elevatissima. La prospettiva è elaborare alcuni parametri che saranno poi sviluppati, appunto, nei decreti delegati.
Che orizzonte temporale ha il vostro compito e quali saranno gli ostacoli maggiori?
I tempi sono strettissimi. Le proposte di emendamento al ddl 2435 dovranno essere pronte per fine aprile. Sarà una lotta contro il tempo che, in questo momento, pare l’ostacolo principale.
Nell’immaginario collettivo – anche, probabilmente, a garanzia del principio di non colpevolezza che è uno dei capisaldi del nostro sistema giudiziario – il processo penale è un esempio plastico di burocratizzazione estrema. Come farete a snellirlo senza intaccare i diritti delle parti?
Le forme sono spesso garanzie e la coniugazione di questi due fattori è particolarmente complessa. L’obiettivo di razionalizzare senza incidere sui diritti delle parti si radica in una revisione critica dell’esistente. A trent’anni dall’entrata in vigore del codice di procedura penale, occorre guardare agli istituti per la connotazione che essi hanno assunto nella realtà e non per le funzioni che erano state a essi affidate dal legislatore. Statistiche, numeri, tabelle – che l’ufficio legislativo del Ministero ci fornisce – sono una cartina di tornasole di ciò che ha funzionato e di ciò che, invece, si è trasfigurato in qualcosa di diverso. Nella lettura di questi dati troveremo lo spunto per tracciare un differente quadro di equilibri tra diritti delle parti e effettività del processo penale.
Esiste un modello di riferimento, a livello europeo, cui dovremmo ispirarci per avere un sistema di giustizia penale più equo ed efficace? In che modo potremmo adattarlo al nostro?
Non un modello nazionale, ma certamente ormai esiste un diritto processuale penale europeo che – attraverso la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e, da oltre dieci anni, anche attraverso la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e le direttive adottate sulla base dell’art. 82.2 TFUE – influenza ampiamente le scelte del legislatore italiano. Ci sono profili di questo ‘nucleo essenziale’ di garanzie europee che possono essere integrati meglio nello schema della giustizia penale italiana.
Parliamo di università. L’ultimo decennio ha fatto registrare una certa flessione nell’appeal delle lauree umanistiche, in un processo che ha coinvolto anche gli studi giuridici. Oggi stiamo assistendo a un cambio di tendenza. Come si trasformerà nel prossimo futuro la figura del giurista e di quali modifiche ha bisogno la formazione universitaria in questo ambito?
La stagione che stiamo vivendo sembra disegnare un nuovo orizzonte delle competenze necessarie. L’urgenza dell’integrazione tra aree di sapere diverse, formalmente molto distanti tra loro, è apparsa chiaramente anche durante questa pandemia, che continuiamo ad attraversare. La formazione giuridica, che è il cuore della tradizione universitaria, deve mirare a rinnovarsi guardando al di là delle sole professioni forensi. La qualità e la solidità della preparazione tecnico-giuridica si devono sposare con la capacità di preparare professionisti che opereranno in contesti interculturali, nei quali sarà essenziale la capacità di individuare e analizzare problemi nuovi, per poi provare a immaginare opportune soluzioni. Questo mi pare il quadro in cui tutti i percorsi umanistici possono e debbono impegnarsi: la profondità dell’analisi e del pensiero non deve essere una qualità a sé stante, bensì lo strumento per interpretare e migliorare la realtà che viviamo.
Come avviene, per esempio, per la laurea triennale nuova di zecca in Gestione ambientale e sviluppo sostenibile (GASS), che partirà a settembre e che unisce le competenze di ben quattro dei nostri Dipartimenti, tra cui il DIGSPES. La parola d’ordine è sempre più interdisciplinarità.
Sì, GASS e altri progetti che sono in questi mesi allo studio dei dipartimenti UPO rappresentano proprio questa prospettiva.