Chi conosce e ha studiato la storia delle isole britanniche da Guglielmo il Conquistatore in poi, quindi stiamo parlando dell’XI secolo, perché di Gran Bretagna “moderna” si può parlare solo dal 1707, con il cosiddetto “Primo Atto di unione”, in poi sarà stato certamente colpito da quel sentimento di “isolata superiorità” che ha da sempre contraddistinto gli inglesi. Padroni, seppure in diverse epoche, di quasi mezzo mondo, abituati almeno dal secolo scorso a convivere con una società multirazziale, hanno tuttavia sempre manifestato (almeno nella frangia più conservatrice della loro società) una profonda diffidenza verso tutto ciò che ha riguardato il “vecchio continente”, cominciando proprio da quell’Unione Europea e dalle sue istituzioni. A quattro anni dal referendum che ha sancito la Brexit (divenuta a tutti gli effetti esecutiva con l’inizio del 2021) l’uscita dell’UK dall’Europa non deve essere vista come un’anomalia. Piuttosto, se proprio di “anomalia” si può parlare, va ricercata nell’ingresso del Regno Unito nell’allora Comunità Europea nel 1973 e il fatto che vi abbia “resistito” per quasi mezzo secolo.
E’ questa una delle analisi condivise da Alessandro Martinisi, quarantenne novarese da anni trapiantato all’ombra del Big Ben, oggi (con tanto di doppio passaporto) docente all’Università di Leeds (capoluogo del West Yorkshire, a circa 350 chilometri a nord ovest della capitale) e alla Northwestern University in Qatar.
«Se la Brexit – spiega Martinisi, che fa tra l’altro parte dell’associazione dei Novaresi nel mondo – è passata grazie a un voto popolare che ci è stato fatto credere ottenuto da un certo malcontento manifestato da tempo soprattutto dagli strati rurali della popolazione, si è trattato in realtà di progetto concepito dall’élite british a favore di se stessa. Un progetto, se vogliamo, coerente, con la stessa storia inglese e il suo rapporto conflittuale con l’Europa».
Problemi che hanno fatto in modo di trasformare «un sentimento anti-Europa e anti-Bruxelles in un vero e proprio astio nei confronti degli europei, dove le campagne politiche sono state pesantemente dominate da una propaganda anti immigrazione, in particolare da quei Paesi dell’ex “blocco dell’Est”».
La “separazione” di Londra dall’Europa comporta oggi, al lato pratico, la fine della libera circolazione delle merci e delle persone, con complicazioni anche per un semplice weekend fatto di turismo e shopping: anche per una semplice “gita” a Londra bisognerà munirsi di passaporto e visto. Ma è soprattutto dal punto di vista della formazione accademica che stanno nascendo le complicazioni maggiori: «Il sistema universitario britannico – dice ancora Martinisi – è molto gerarchico e funziona per ranking e classifiche. A essere danneggiati saranno quegli studenti che frequenteranno quelle università appartenenti alle classifiche inferiori e che non potranno accedere allo “Alan Turing Scheme” (dedicato al matematico e crittografo divenuto famoso per aver scoperto nel corso della Seconda guerra mondiale il sistema per decifrare i messaggi in codice tedeschi, ndr), il nuovo progetto educativo destinato a sostituire l’“Erasmus”». Quest’ultimo «si era rivelato decisamente democratico e che ha consentito a molti studenti di poter beneficiare delle sue opportunità, anche ai fini di successivi sbocchi occupazionali». Il sistema educativo britannico, insomma, è tornato indietro di decenni, favorendo quelle classi elitarie che, «loro sì, in Europa potranno comunque continuare a venirci».
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Concordo appieno con il Professor Martinisi nella sua brillante disamina dell’attuale situazione Inglese e le motivazioni che ne hanno indotto l’uscita dalla calca Europea! Anche io, come Lui, ho avuto delle grandi perplessità nel vedere un grande Paese come l’Inghilterra scegliere di unirsi alla nascente Europa. Non ne aveva proprio bisogno secondo il mio parere, ma tant’è! La Brexit la vedo come il ravvedimento ad un grosso errore!
Cordiali Saluti!
Tommaso De Luca