La “colpa” di essere dipendenti pubblici

Mentre in tutto il Paese si combatte ancora per cercare di arginare il virus, un’altra piaga dilaga ormai da dieci mesi: quella della crisi economica. Dopo la perdita in termini di vite umane (è stata superata la soglia dei 50.000 morti), il totale disfacimento dell’economia nazionale è senz’altro l’effetto più allarmante della pandemia.

Da qualche settimana si legge che il modo più immediato per uscirne è che tutti contribuiscano a pagare la crisi. Una delle proposte, che torna attuale ogni volta che si verifica una crisi economica, è quella di togliere parte dello stipendio ai dipendenti pubblici, considerati un covo di fannulloni, per ridistribuirlo ai privati, gli unici che in questi momenti rischiano il posto di lavoro o di vedere naufragare la propria attività. Una sorta di condivisione dei costi della crisi come forma di giustizia sociale.

 

 

Un’idea che merita senz’altro una riflessione. Innanzitutto c’è da dire che il momento storico che stiamo vivendo sta mettendo in luce tutta l’inconsistenza del nostro sistema di protezione sociale incentrato sul lavoro dipendente, incapace e impreparato a offrire tutele tempestive al lavoro autonomo. Se poi si considera che anche il settore pubblico è continuamente minato dal lavoro a termine o discontinuo, che gli statali rappresentano solo il 14% degli occupati con retribuzioni ferme al palo da anni, si capisce come prendere di mira i dipendenti pubblici non sia esattamente la migliore soluzione per far uscire il Paese dal pantano della crisi.

Ma non è tutto. Se si scoprisse che i due terzi di questi statali sono anche i 700 mila operatori sanitari, i 900 mila insegnanti e i 300 mila rappresentanti delle forze dell’ordine? Insomma, una proposta che svela una scarsa conoscenza della situazione e che mira a una soluzione inefficace se non addiritutta pericolosa.

Il male della società, dunque, non è lo stipendio sicuro a fronte di chi, invece, ha perso l’attività. Anni di disinvestimento economico, abbinati a un livello culturale sempre più flebile e alla mancanza di vere forme di solidarietà sociale, ci hanno restituito istituzioni svuotate di ogni contenuto incapaci di camminare al passo con i tempi.

L’idea di far pagare la crisi alla popolazione che sta già pagando un prezzo altissimo è quantomeno ripugnante, generando nient’altro che guerre tra “poveri”.

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Cecilia Colli

Novarese, giornalista professionista, ha lavorato per settimanali e tv. A La Voce di Novara ha il ruolo di direttore

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0 risposte

  1. COsa aggiungere cara Cecilia? Se tagliassero lo stipendio ai dipendenti pubblici, questi ridurrebbero drasticamente le spese, altro che diminuzione dei consumi! Si azzererebbero. Una ricetta improponibile.

  2. Solo una considerazione sull’articolo, all’inizio è scritto che nel paese si cerca di arginare il virus.
    Direi che per arginare il virus proprio non si sta facendo nulla, i dati sui contagi, sui ricoveri e sui decessi si commentano da soli.
    Se ai primi di agosto avevamo una decina di decessi alla settimana, ora abbiamo superato quota 4000.
    Lo stato si è affidato in questi mesi alle volontà degli elettori: chi seguiva le direttive sanitarie chi invece si affidava al generale Pappalardo, Salvini, Zangrillo o la Gismondi.
    Insomma, un gran caos agevolato dalle aperture dei vari DPCM senza alcun controllo della situazione.
    Eppure evitare tutto questo sarebbe stato possibile se ci fosse stata la volontà politica di mettere al primo posto la salute e l’economia.
    Già, potrebbe sembrare che il Governo e le Regioni abbiano pensato tanto all’economia, ma in realtà, proprio grazie a quelle aperture economiche a maggio, spinte dalle associazioni di categoria, l’economia nazionale subirà danni maggiori. Han venduto la corda con cui si stanno impiccando.
    Han pensato alle aperture senza preoccuparsi di quello che sarebbe potuto accadere e che è accaduto: il contagio si è propagato ovunque…
    hanno aperto a tutto senza monitorare il contagio e poi, nonostante il graduale aumento dei casi non hanno fatto più nulla.
    Siamo nella stessa situazione di marzo, e forse peggio, ma si pensa ancora all’economia ma non alle salute, così facendo si apprestano a produrre ulteriori danni all’economia e alla salute.
    La questione dipendenti pubblici serve ancora una volta come capro espiatorio della situazione: i danni provocati dagli errori dello stato e delle regioni li vogliono scaricare sui lavoratori e siccome quelli pubblici sono quelli con lo stipendio fisso diviene più facile, elettoralmente, colpirli.
    la responsabilità di tutto questo è del Governo Nazionale e dei Governi Regionali.

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La “colpa” di essere dipendenti pubblici

Mentre in tutto il Paese si combatte ancora per cercare di arginare il virus, un’altra piaga dilaga ormai da dieci mesi: quella della crisi economica. Dopo la perdita in termini di vite umane (è stata superata la soglia dei 50.000 morti), il totale disfacimento dell’economia nazionale è senz’altro l’effetto più allarmante della pandemia.

Da qualche settimana si legge che il modo più immediato per uscirne è che tutti contribuiscano a pagare la crisi. Una delle proposte, che torna attuale ogni volta che si verifica una crisi economica, è quella di togliere parte dello stipendio ai dipendenti pubblici, considerati un covo di fannulloni, per ridistribuirlo ai privati, gli unici che in questi momenti rischiano il posto di lavoro o di vedere naufragare la propria attività. Una sorta di condivisione dei costi della crisi come forma di giustizia sociale.

 

 

Un’idea che merita senz’altro una riflessione. Innanzitutto c’è da dire che il momento storico che stiamo vivendo sta mettendo in luce tutta l’inconsistenza del nostro sistema di protezione sociale incentrato sul lavoro dipendente, incapace e impreparato a offrire tutele tempestive al lavoro autonomo. Se poi si considera che anche il settore pubblico è continuamente minato dal lavoro a termine o discontinuo, che gli statali rappresentano solo il 14% degli occupati con retribuzioni ferme al palo da anni, si capisce come prendere di mira i dipendenti pubblici non sia esattamente la migliore soluzione per far uscire il Paese dal pantano della crisi.

Ma non è tutto. Se si scoprisse che i due terzi di questi statali sono anche i 700 mila operatori sanitari, i 900 mila insegnanti e i 300 mila rappresentanti delle forze dell’ordine? Insomma, una proposta che svela una scarsa conoscenza della situazione e che mira a una soluzione inefficace se non addiritutta pericolosa.

Il male della società, dunque, non è lo stipendio sicuro a fronte di chi, invece, ha perso l’attività. Anni di disinvestimento economico, abbinati a un livello culturale sempre più flebile e alla mancanza di vere forme di solidarietà sociale, ci hanno restituito istituzioni svuotate di ogni contenuto incapaci di camminare al passo con i tempi.

L’idea di far pagare la crisi alla popolazione che sta già pagando un prezzo altissimo è quantomeno ripugnante, generando nient’altro che guerre tra “poveri”.

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Riproduzione Riservata

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Novarese, giornalista professionista, ha lavorato per settimanali e tv. A La Voce di Novara ha il ruolo di direttore