Le radici di una scelta. La lettura del 25 Aprile

Marcella Balconi ha dedicato gran parte della sua vita e delle sue capacità a condurre ricerche, elaborare progetti, promuovere e dirigere attività guidata dall’idea di intervenire sulle cause profonde della diseguaglianza sociale, con l’obiettivo di consentire a un numero crescente di persone di emanciparsi dalla subalternità e dall’esclusione. In questo percorso di vita, ha affiancato a lungo alla professione di medico la militanza nel partito comunista, che l’ha condotta a svolgere importanti incarichi nelle istituzioni della Repubblica a diversi livelli, intuendo quanto la dimensione politica fosse cruciale per mitigare, e potenzialmente rimuovere, i disagi e le patologie con cui si confrontava costantemente nell’esercizio della sua professione.

Ma ancor di più, direi che la scelta della professione – la medicina prima e, soprattutto, la neuropsichiatria infantile poi, e il conseguente modo di concepirla – era essa stessa una scelta che si inseriva in una prospettiva politica, uno strumento attraverso il quale partecipare attivamente alla definizione di un progetto di trasformazione della società. Così come era stato per le due figure che a diverso titolo avevano svolto un ruolo cruciale nella sua formazione: il padre, il dottor Giuseppe Balconi, e il professor Piero Fornara, entrambi medici, ed entrambi militanti del partito socialista. La loro azione può essere ricondotta – anche se con sfumature differenti, appartenendo a generazioni diverse: il primo era nato nel 1872, il secondo nel 1897 – ai princìpi del socialismo municipale, che caratterizzò l’azione del partito, soprattutto sotto la guida di Turati, nella lunga fase della progressiva estensione del suffragio che si concluse con la fine della prima guerra mondiale. Escluso stabilmente dall’area di governo, il partito socialista, da solo o all’interno di coalizioni, riuscì, di contro, a guidare un numero sempre crescente di amministrazioni comunali, la cui azione a favore delle classi che rappresentava passava soprattutto attraverso politiche di socializzazione dei servizi e di risanamento del tessuto urbano, sostenute da misure fiscali redistributive, pur nei limiti delle possibilità offerte dall’ordinamento comunale. Nonostante l’ampio dibattito teorico che accompagnò in tutta Europa1 l’elaborazione di tali programmi, teso a evitare che il modello che stava prendendo forma finisse per sostituire la prospettiva più generale del cambiamento radicale dei rapporti sociali, l’azione politica delle giunte a guida socialista rappresentò forse il momento decisivo nel processo di integrazione delle organizzazioni del movimento operaio nelle istituzioni di matrice liberale. Un modello che conta una significativa tradizione anche nella nostra provincia, dalla coalizione che ad Arona elesse sindaco Alessandro Colombo nell’agosto del 1899, fino alle amministrazioni che Luigi Giulietti e Giuseppe Bonfantini guidarono a Novara dal 1914 al 1922. Negli stessi anni Angelo Filippetti, originario di Arona, medico anch’egli, legato all’Umanitaria, già uomo di punta della maggioranza che aveva sorretto Colombo, fu eletto assessore nella giunta Caldara, nel 1914, e successivamente, nel 1920, divenne sindaco di Milano, l’ultimo sindaco di Milano democraticamente eletto prima dell’avvento del fascismo. Filippetti fu costretto a dimettersi il 3 agosto del 1922, dopo che le milizie del partito nazionale fascista avevano occupato Palazzo Marino, così come aveva dovuto fare il mese precedente il professor Bonfantini a Novara. E nello stesso solco aveva condotto la sua azione la giunta guidata da Umberto Caroncini dal 1908 al 1911 a Cureggio, dove era giunto nel gennaio del 1902 con il compito di organizzare il partito per qualche tempo, e aveva finito per spendere tutta la sua esistenza a fianco delle classi popolari come medico, militante di partito e amministratore.

Ma più in generale, per quelle generazioni di militanti socialisti non c’era soluzione di continuità tra l’azione più propriamente politica, condotta all’interno delle istituzioni utilizzando le risorse che tale posizione rendeva disponibili o attraverso il partito e le associazioni che ruotavano intorno ad esso, e l’azione svolta nell’esercizio quotidiano della propria professione, perchè l’idea del riscatto delle classi popolari, che era la stella polare di quelle generazioni, doveva essere tradotta immediatamente in interventi capaci di migliorare le loro condizioni di vita. Per Piero Fornara, impiegare il suo talento e le sue capacità per curare i bambini ricoverati al brefotrofio di Novara era già un’azione politica in se stessa, condizione necessaria a qualsiasi programma di riforma sociale, così come per Giuseppe Balconi affiancare all’attività di medico condotto quella di avvocato, conseguendo una seconda laurea in giurisprudenza a trentaquattro anni per poter intervenire a sostegno di chi si trovava in difficoltà, nei numerosi casi cui l’esercizio della sua professione lo metteva continuamente in contatto.

Pur avendo scelto di militare nel partito comunista, un partito nato in aperto contrasto con questa visione e che, nella sua lunga storia, ha sempre tenuto a marcarne con nettezza l’estraneità, almeno sul piano teorico, ritengo che Marcella Balconi sia stata profondamente influenzata da essa e che di essa il suo agire politico rappresenti l’eredità. Sono state le circostanze storiche determinate dal ruolo giocato dal partito comunista nell’opposizione al fascismo e, soprattutto, dall’azione svolta durante la Resistenza a orientare questa scelta, oltre alle ascendenze famigliari.

Marcella Balconi nacque l’8 febbraio del 1919 a Romagnano Sesia. Frequentò il liceo classico Carlo Alberto a Novara, negli stessi anni di Oscar Luigi Scalfaro, che era nato nel 1918. Conseguita la maturità classica, si iscrisse nel 1937 alla facoltà di medicina all’Università di Pavia, centro universitario per eccellenza prima della progressiva crescita delle università milanesi, istituite tutte nel primo dopoguerra. Allo stato attuale delle conoscenze, non sembrano esistere testimonianze dirette che diano conto dei motivi che la spinsero a iscriversi alla facoltà di medicina. Possiamo solo supporre che debbano aver influito l’ascendenza paterna e una naturale predisposizione verso quel campo di studi, oltre a una predisposizione allo studio in generale. Il percorso intrapreso non era certo usuale per l’epoca, anche se non più così raro, e denota, oltre a una ferma volontà, l’appoggio incondizionato della famiglia. Non si trattava solo, infatti, di affrontare un ambiente, come quello universitario, ancora prevalentemente maschile, nella composizione e nei valori, ma anche di porsi in contrasto con le aspettative sociali che definivano nel suo tempo la personalità di una ragazza. Si laureò nel luglio del 1943 e poco dopo divenne assistente presso l’Istituto di Chimica Biologica dell’ateneo patavino. Questa decisione lascia intendere, come lei stessa ha ricordato in più di una circostanza, l’intenzione di dedicarsi alla ricerca, dunque di interpretare la medicina come studio per accrescere il patrimonio di conoscenze a disposizione per migliorare le condizioni di vita dell’umanità.

Ma proprio in quei mesi l’Italia stava entrando in uno dei frangenti più drammatici della sua storia. L’armistizio dell’8 settembre e la conseguente occupazione tedesca imposero a chiunque di prendere posizione, fosse pure per trovare il modo di defilarsi; tanto più a chi aveva attraversato il fascismo con la speranza che prima o poi si sarebbe presentata l’occasione per porre le premesse del suo definitivo superamento. Fin da subito, Marcella Balconi, insieme a Maria Elvira Berrini, la cugina con cui aveva condiviso gli studi – compresa una rocambolesca fuga dal collegio – fin dalle scuole medie, frequentate nell’istituto delle suore rosminiane di Biella e con cui condividerà una parte significativa del percorso professionale, cominciò a collaborare al movimento resistenziale, facendo capo al comando generale delle brigate Garibaldi di Milano, con l’incarico di tenere il collegamento tra le varie formazioni, trasportare armi e materiale di propaganda, oltre a quello di coordinare un gruppo di infermiere e verificare le condizioni sanitarie in cui operavano le bande.1 Nella primavera vennero nominate entrambe ispettrici sanitarie, Maria Elvira in una zona che comprendeva la Valsesia, l’Ossola, la Valcamonica e l’Oltrepò, mentre Marcella in Valtellina. Un incarico di grande responsabilità, che non solo prevedeva numerosi spostamenti, estremamente rischiosi, ma anche frequenti viaggi a Milano, altrettanto rischiosi, per rifornirsi di medicinali presso un magazzino clandestino, che dovevano essere fatti pervenire alle “basi sanitarie” delle formazioni disperse sul territorio. Nell’agosto del 1944, però, è costretta a lasciare la Valtellina e a trasferirsi presso il comando regionale piemontese delle brigate Garibaldi di stanza a Torino, dove fu una delle principali collaboratrici di Giacomo Scotti. Una ricetta con la sua firma contenente una prescrizione per curare un ragazzo affetto da cancrena insospettì a tal punto le autorità saloine, che si ritenne prudenzialmente di disporre il suo allontanamento da quella zona di operazioni. Nella sua nuova veste di ispettore con incarichi organizzativi, Marcella Balconi aveva la responsabilità di oltre duemila partigiani e per questa sua posizione nella struttura operativa del Cvl venne congedata nel giugno del 1945 con il grado di maggiore.

La scelta di prendere parte attivamente alla Resistenza fu la naturale conseguenza delle convinzioni che aveva maturato innanzitutto in famiglia, e, successivamente, frequentando la scuola del professor Fornara. Nonostante la giovane età, al momento dell’armistizio aveva ventiquattro anni, l’adesione al movimento resistenziale non nacque, infatti, sulla spinta degli eventi che travolsero lo stato italiano, fino a cancellarne completamente la presenza tanto nelle regioni occupate dall’esercito anglo-americano, dove si ricostituì faticosamente soltanto grazie alle decisioni assunte dai governi alleati in vista della transizione alla democrazia, quanto nelle regioni consegnate senza colpo ferire all’occupazione tedesca, ma rappresentava l’occasione lungamente attesa di dare forma storica ai sentimenti di opposizione al fascismo, inteso tanto come regime politico, quanto come modello sociale, che non avevano forzatamente potuto essere espressi pubblicamente.1 La violenza fascista aveva drammaticamente segnato la vita della sua famiglia, e la sua personale, fin dall’infanzia; l’antitesi tra le idee che guidavano l’azione politica di suo padre e quelle dello squadrismo degli esordi del movimento si era fin dal principio tradotta in aggressione fisica e disprezzo della vita altrui. Il primo maggio del 1922, mentre era alla guida del corteo organizzato per solennizzare la ricorrenza, vennero esplosi alcuni colpi di pistola all’indirizzo di Giuseppe Balconi, che mancarono il bersaglio, ma uccisero un giovane operario di Romagnano, Giuseppe Giustina, militante del partito comunista. Marcella, che aveva da poco compiuto tre anni, si vide costretta suo malgrado ad assistere alla orribile scena sulla porta di casa, dove stava aspettando il ritorno del padre. Riflettendo su quel terribile avvenimento quasi sul limitare della vita, aveva concluso che il suo viscerale antifascismo nacque in modo istintivo in quel frangente, così come, allargando l’analisi, concludeva che l’esercizio gratuito della violenza praticato dal movimento fascista nelle varie fasi della sua parabola storica aveva suscitato l’opposizione di un’intera generazione.2 Pochi anni dopo, il fascismo, impadronitosi ormai dello stato, inviò Giuseppe Balconi al confino, dal novembre del 1926 al novembre del 1927.

L’incontro con il professor Fornara fu altrettanto determinante nella maturazione della decisione di partecipare al movimento resistenziale. Come racconta lei stessa nel suo intervento del principio degli anni novanta, aveva incominciato a frequentare l’ambulatorio del professor Fornara mentre stava ancora completando gli studi universitari. L’incontro avvenne grazie al legame che univa Fornara e Giuseppe Balconi, professionale, poiché Balconi ricorreva volentieri al parere dell’illustre collega, e politico, la comune militanza socialista, in quegli anni forzatamente clandestina e privata di ogni struttura di partito. Quel primo contatto avvenne su un terreno eminentemente scientifico, la formula dei sulfamidici, di cui Fornara era uno studioso affermato, che, evidentemente, era già al centro degli interessi professionali di Marcella. Ma Fornara non aveva potuto dar corso alla sua vocazione di ricercatore, per la sua intransigenza nei confronti del regime, e aveva dovuto restare all’ospedale di Novara, dove era diventato primario di pediatria. Il suo sogno di contribuire al superamento delle diseguaglianze attraverso la scoperta di farmaci in grado di sconfiggere le malattie endemiche era diventato pratica clinica messa a servizio di chiunque avesse bisogno, senza distinzioni. In quell’ambulatorio, Marcella Balconi non imparò soltanto la scienza medica, ma anche, come ricorda lei stessa, il rigore e la dignità, che nel momento della disfatta dello stato italiano divennero lotta resistenziale. Nel gruppo di giovani medici che Fornara plasmò e che ne raccolse l’eredità, divenendo punti di riferimento per la comunità novarese, conobbe anche Felice Bonfantini, Cino, cui si legò sentimentalmente. La guerra, però, spezzò tragicamente la loro unione. Richiamato nell’esercito poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia, venne inviato sul fronte greco. Dopo l’armistizio si unì alla Resistenza locale, ma venne catturato nel dicembre del 1943 e internato nel campo di Dortmund, dove morì il 13 giugno del 1944.

Se queste sono state le radici profonde che hanno guidato la scelta di prendere parte attivamente al movimento resistenziale, l’ingresso organico nelle formazioni partigiane avvenne sulla spinta di Giuliano Pajetta, suo cugino per parte materna di quattro anni più vecchio di lei, cui era molto legata, che determinò il suo avvicinamento al partito comunista. Circostanza che spiacque molto al padre, che non le rivolse la parola per alcuni giorni, dopo essere stato informato della decisione. Espatriato prima in Francia e poi in Unione sovietica al principio degli anni trenta, Giuliano aveva combattuto in Spagna con le Brigate internazionali ed era stato in seguito internato a Vernet in conseguenza del patto di non aggressione stipulato tra la Germania e l’Unione sovietica nell’agosto del 1939, che poneva i militanti comunisti in una posizione oggettivamente ostile alle democrazie occidentali. Successivamente si era unito alle formazioni della Resistenza francese dell’interno, il maquis, dopo che l’attacco tedesco del giungo 1941 aveva creato l’alleanza di fatto tra le potenze alleate e i sovietici. Nel giugno del 1944 rientrò in Italia, a Milano, in qualità di ispettore delle Brigate Garibaldi e riallacciò i rapporti con Marcella e Maria Elvira, che non si erano mai interrotti del tutto nonostante le sue continue peregrinazioni, cominciando una sistematica opera di persuasione per ottenerne l’adesione al partito. Arrestato qualche mese dopo, venne internato nel campo di Mauthausen, dove ritrovò altri due cugini di ramo materno – erano tutti figli delle sorelle Berrini – Mosè e Leone Mira d’Ercole, partigiani della divisione Beltrami, catturati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro nel dicembre del 1944, uno a Omegna e l’altro ad Armeno. Tra le carte della famiglia Pajetta, è conservata una lettera inviata da Giuliano mentre si trovava in carcere a San Vittore, in cui chiede esplicitamente che «Se dovesse succedermi una disgrazia […] le due cuginette facciano il famoso passo e occupino un posto vuoto», dove il posto vuoto, considerando la datazione della lettera, sembra essere più quello lasciato nelle file del partito, che quello nelle file della Resistenza, cui a quel punto le due cugine collaboravano già attivamente.

La riflessione sull’esperienza resistenziale, sugli inaccettabili costi umani della lotta e sulle cause che tali costi avevano reso inevitabili, la portò a rinunciare definitivamente alla carriera universitaria, interrotta per partecipare alla Resistenza, per lavorare stabilmente come assistente volontaria con il professor Fornara, specializzandosi in pediatria. In questa riflessione ebbe parte rilevante la cura di un fascicolo contenente le biografie dei partigiani caduti in Piemonte, che le venne affidato al termine della guerra. Il fatto che molti di loro fossero morti in giovane età, come in giovane età erano morti i suoi cugini Gaspare Pajetta, caduto diciottenne a Megolo il 13 febbraio del 1944 con il capitano Beltrami, e Riccardo Mira d’Ercole, partigiano della divisione Beltrami, di un anno più giovane di Gaspare, fucilato dai tedeschi ad Anzola il 6 agosto successivo, la convinsero dell’assoluta necessità di rimuovere le condizioni che avevano reso possibile la tragedia che aveva così duramente colpito quella generazione di giovani e le fecero maturare la convinzione di dover partecipare direttamente a tale impresa. Ne aveva individuato uno dei nodi nevralgici nell’impossibilità per larghe fasce della società di accedere a quelle risorse di individuazione che permettono di costruire una personalità in grado di non subire passivamente le imposizioni di chi detiene una qualsiasi autorità e riteneva che la causa principale di tale impossibilità fosse rappresentata dalle condizioni sociali, prima ancora che economiche, in cui crescono i bambini.

Mi pare evidente che l’individuazione di questo nesso prese forma attingendo alle suggestioni ricevute dalla frequentazione del reparto pediatrico guidato da Fornara, dall’esperienza diretta dell’esercizio quotidiano della professione, ma anche dall’idea di fondo che informava la direzione di Fornara, così come fu quella frequentazione a indurla a specializzarsi nel 1951 in neuropsichiatria infantile, come conseguenza della constatazione della preoccupante mancanza di conoscenze adeguate sui disturbi piscologici dei bambini. Anche per Fornara le condizioni di vita dei bambini delle classi popolari erano l’immagine icastica di una società diseguale e anche per Fornara lavorare e spendere la propria vita per migliorare quelle condizioni era la premessa indispensabile per ridurre le diseguaglianze che si manifestavano attraverso di esse. E in questo processo, l’esercizio della professione medica era concepito esso stesso quale azione politica, perché non veniva assunto come dato immutabile il contesto in cui veniva svolta e, di conseguenza, si aveva la chiara consapevolezza che diversi modi di interpretare tale esercizio avrebbero dato luogo a esiti del tutto differenti. Questa capacità di comprendere la valenza politica dell’esercizio della professione medica diventava del tutto naturalmente capacità di progettare riforme in grado di sostenere questo sforzo, e di conseguenza, come abbiamo visto, di incidere sugli assetti sociali più generali. In questa concezione, la politica viene interpretata soprattutto come un insieme di politiche pubbliche, costruite partendo dalla conoscenza dei dati di realtà, che descrivono nel modo più accurato possibile con l’apporto di tecnici e professionisti, i cui obiettivi sono individuati per la capacità che hanno di innescare cambiamenti significativi sullo sfondo di un progetto di trasformazione sociale, tenendo conto, però, delle condizioni oggettive in cui vengono implementate. La percezione delle diseguaglianze era il risultato dell’esperienza di vita, dei bisogni concreti con cui si veniva in contatto, non il risultato della teorizzazione di modelli di società, ragion per cui i progetti di cambiamento delle strutture sociali muovevano dall’incontro con tali bisogni.

L’impronta di questa eredità è stata così profonda, che ha orientato costantemente l’attività pubblica di Marcella Balconi. La dimensione della militanza politica scoperta durante la Resistenza è progressivamente diventata una risorsa da utilizzare per sostenere i progetti d’intervento sociale e definire politiche pubbliche in grado di integrarli e diventare strumenti a supporto di tali interventi. Penso si possa affermare che il suo approccio rappresenti un esempio tra i più alti di quel riformismo di ascendenza socialista praticato dal partito comunista con risultati notevoli, che hanno contribuito in modo decisivo alla modernizzazione della società italiana, ma che è sempre stato pervicacemente negato teoricamente; e questa attitudine, tra i fattori che hanno determinato la fine di quell’esperienza, forse, non è stato il meno rilevante. Come appare evidente da un’analisi, anche per sommi capi, delle materie di cui si è occupata nel suo mandato parlamentare, con interventi caratterizzati da abbondanti riferimenti alle realizzazioni della socialdemocrazia scandinava e dell’Inghilterra laburista,6 della sua azione complessiva come sindaco di Grignasco e di quella come assessore della giunta Pagani a Novara, con delega, addirittura, ai lavori pubblici e al decentramento,8 con l’idea di poter intervenire sulle condizioni strutturali che favoriscono o impediscono la socialità, con sempre presente le conseguenze di tali decisioni sulle opportunità di vita delle persone. Naturale, dunque, che la politique politicienne non l’abbia mai entusiasmata, anzi si può dire che l’abbia sempre sostanzialmente sofferta, tanto da non accettare la ricandidatura al termine della legislatura trascorsa in Parlamento, in larga parte delusa dall’esperienza, nonostante il notevole contributo dato nella definizione di linee di intervento innovative nelle politiche sociali.

La partecipazione al movimento resistenziale ha innescato in alcuni settori della società italiana un rinnovamento politico e culturale che nel dopoguerra ha alimentato le spinte che ne hanno avviato il percorso di modernizzazione. Innanzitutto, accompagnando e favorendo il completamento del processo di integrazione nelle istituzioni dello stato liberale delle masse che ne erano state escluse, brutalmente interrotto dal fascismo con la chiusura del sistema politico e la compressione delle libertà civili. Certo, le condizioni che permisero tale esito dipesero in larga misura dagli assetti geopolitici determinatisi alla fine del conflitto mondiale, con l’affermazione di una potenza egemone liberale che, con l’adozione delle politiche rooseveltiane, si era dotata di strumenti tesi a rinforzare la coesione sociale, dimensione la cui centralità era apparsa cruciale per il mantenimento di società aperte negli anni della depressione. Ma le culture politiche che animarono le resistenze europee seppero reinterpretare in modo originale questa necessità storica, costruendo i sistemi di welfare, sulla scia dei piani Beveridge elaborati in Inghilterra a partire dal 1941, introducendo nell’ordinamento una nuova categoria di diritti, i diritti sociali, pensati come precondizione all’esercizio dei diritti civili e politici della tradizione liberale,10 dando forma compiuta all’intuizione che aveva mosso il movimento socialista dal finire dell’ottocento.

Ma, soprattutto, la Resistenza forgiò una nuova classe dirigente che seppe rinnovare la società italiana, una società completamente disarticolata da vent’anni di fascismo, quel fascismo che aveva distrutto la possibilità stessa di una dialettica civile assorbendola completamente nello stato di ispirazione gentiliana, e dalle conseguenze di una guerra tragica, segnata dai bombardamenti, dalla persecuzione razziale, dalla fame. Se in circa quindici anni il nostro Paese è riuscito a risollevarsi, fino a entrare nel novero degli stati più progrediti, è stato grazie alla progressiva crescita di una dinamica civile, che ha trainato la crescita di tutta la società nel suo complesso. Scorrendo le biografie dei protagonisti che hanno dato un’impronta ai settori che più di altri hanno segnato questa rinascita – design, giornalismo, cinema, professioni, studi, letteratura – si noterà facilmente che tutti hanno preso parte a vario titolo alla Resistenza, magari senza esibirlo troppo, perché erano molto giovani o perché non è stata un’esperienza intorno a cui si è fissata la loro identità. Ma da quella partecipazione avevano tratto l’insegnamento che le ambizioni individuali, che pure sono legittime, non possono essere perseguite senza tenere conto dei vincoli sociali, senza incorporare nel proprio corso d’azione la necessità di rafforzare le dimensioni che tengono insieme le società.

Credo che l’eredità più duratura della Resistenza sia stata questo sguardo sul mondo. Uno sguardo che Marcella Balconi ha saputo coltivare con costanza e lucidità, interpretandolo con una passione civile inesauribile. Uno sguardo prezioso, che getta ancora la sua luce di noi.

Il saggio di Giovanni Cerutti è contenuto nel volume Marcella Balconi cent’anni. Il tempo ritrovato, edito dall’Anpi provinciale di Novara. Chi fosse interessato può richiederne una copia alla segreteria dell’Anpi, inviando una mail a Anpi anpinovara@gmail.com

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Marcella Balconi ha dedicato gran parte della sua vita e delle sue capacità a condurre ricerche, elaborare progetti, promuovere e dirigere attività guidata dall’idea di intervenire sulle cause profonde della diseguaglianza sociale, con l’obiettivo di consentire a un numero crescente di persone di emanciparsi dalla subalternità e dall’esclusione. In questo percorso di vita, ha affiancato a lungo alla professione di medico la militanza nel partito comunista, che l’ha condotta a svolgere importanti incarichi nelle istituzioni della Repubblica a diversi livelli, intuendo quanto la dimensione politica fosse cruciale per mitigare, e potenzialmente rimuovere, i disagi e le patologie con cui si confrontava costantemente nell’esercizio della sua professione.

Ma ancor di più, direi che la scelta della professione – la medicina prima e, soprattutto, la neuropsichiatria infantile poi, e il conseguente modo di concepirla – era essa stessa una scelta che si inseriva in una prospettiva politica, uno strumento attraverso il quale partecipare attivamente alla definizione di un progetto di trasformazione della società. Così come era stato per le due figure che a diverso titolo avevano svolto un ruolo cruciale nella sua formazione: il padre, il dottor Giuseppe Balconi, e il professor Piero Fornara, entrambi medici, ed entrambi militanti del partito socialista. La loro azione può essere ricondotta – anche se con sfumature differenti, appartenendo a generazioni diverse: il primo era nato nel 1872, il secondo nel 1897 – ai princìpi del socialismo municipale, che caratterizzò l’azione del partito, soprattutto sotto la guida di Turati, nella lunga fase della progressiva estensione del suffragio che si concluse con la fine della prima guerra mondiale. Escluso stabilmente dall’area di governo, il partito socialista, da solo o all’interno di coalizioni, riuscì, di contro, a guidare un numero sempre crescente di amministrazioni comunali, la cui azione a favore delle classi che rappresentava passava soprattutto attraverso politiche di socializzazione dei servizi e di risanamento del tessuto urbano, sostenute da misure fiscali redistributive, pur nei limiti delle possibilità offerte dall’ordinamento comunale. Nonostante l’ampio dibattito teorico che accompagnò in tutta Europa1 l’elaborazione di tali programmi, teso a evitare che il modello che stava prendendo forma finisse per sostituire la prospettiva più generale del cambiamento radicale dei rapporti sociali, l’azione politica delle giunte a guida socialista rappresentò forse il momento decisivo nel processo di integrazione delle organizzazioni del movimento operaio nelle istituzioni di matrice liberale. Un modello che conta una significativa tradizione anche nella nostra provincia, dalla coalizione che ad Arona elesse sindaco Alessandro Colombo nell’agosto del 1899, fino alle amministrazioni che Luigi Giulietti e Giuseppe Bonfantini guidarono a Novara dal 1914 al 1922. Negli stessi anni Angelo Filippetti, originario di Arona, medico anch’egli, legato all’Umanitaria, già uomo di punta della maggioranza che aveva sorretto Colombo, fu eletto assessore nella giunta Caldara, nel 1914, e successivamente, nel 1920, divenne sindaco di Milano, l’ultimo sindaco di Milano democraticamente eletto prima dell’avvento del fascismo. Filippetti fu costretto a dimettersi il 3 agosto del 1922, dopo che le milizie del partito nazionale fascista avevano occupato Palazzo Marino, così come aveva dovuto fare il mese precedente il professor Bonfantini a Novara. E nello stesso solco aveva condotto la sua azione la giunta guidata da Umberto Caroncini dal 1908 al 1911 a Cureggio, dove era giunto nel gennaio del 1902 con il compito di organizzare il partito per qualche tempo, e aveva finito per spendere tutta la sua esistenza a fianco delle classi popolari come medico, militante di partito e amministratore.

Ma più in generale, per quelle generazioni di militanti socialisti non c’era soluzione di continuità tra l’azione più propriamente politica, condotta all’interno delle istituzioni utilizzando le risorse che tale posizione rendeva disponibili o attraverso il partito e le associazioni che ruotavano intorno ad esso, e l’azione svolta nell’esercizio quotidiano della propria professione, perchè l’idea del riscatto delle classi popolari, che era la stella polare di quelle generazioni, doveva essere tradotta immediatamente in interventi capaci di migliorare le loro condizioni di vita. Per Piero Fornara, impiegare il suo talento e le sue capacità per curare i bambini ricoverati al brefotrofio di Novara era già un’azione politica in se stessa, condizione necessaria a qualsiasi programma di riforma sociale, così come per Giuseppe Balconi affiancare all’attività di medico condotto quella di avvocato, conseguendo una seconda laurea in giurisprudenza a trentaquattro anni per poter intervenire a sostegno di chi si trovava in difficoltà, nei numerosi casi cui l’esercizio della sua professione lo metteva continuamente in contatto.

Pur avendo scelto di militare nel partito comunista, un partito nato in aperto contrasto con questa visione e che, nella sua lunga storia, ha sempre tenuto a marcarne con nettezza l’estraneità, almeno sul piano teorico, ritengo che Marcella Balconi sia stata profondamente influenzata da essa e che di essa il suo agire politico rappresenti l’eredità. Sono state le circostanze storiche determinate dal ruolo giocato dal partito comunista nell’opposizione al fascismo e, soprattutto, dall’azione svolta durante la Resistenza a orientare questa scelta, oltre alle ascendenze famigliari.

Marcella Balconi nacque l’8 febbraio del 1919 a Romagnano Sesia. Frequentò il liceo classico Carlo Alberto a Novara, negli stessi anni di Oscar Luigi Scalfaro, che era nato nel 1918. Conseguita la maturità classica, si iscrisse nel 1937 alla facoltà di medicina all’Università di Pavia, centro universitario per eccellenza prima della progressiva crescita delle università milanesi, istituite tutte nel primo dopoguerra. Allo stato attuale delle conoscenze, non sembrano esistere testimonianze dirette che diano conto dei motivi che la spinsero a iscriversi alla facoltà di medicina. Possiamo solo supporre che debbano aver influito l’ascendenza paterna e una naturale predisposizione verso quel campo di studi, oltre a una predisposizione allo studio in generale. Il percorso intrapreso non era certo usuale per l’epoca, anche se non più così raro, e denota, oltre a una ferma volontà, l’appoggio incondizionato della famiglia. Non si trattava solo, infatti, di affrontare un ambiente, come quello universitario, ancora prevalentemente maschile, nella composizione e nei valori, ma anche di porsi in contrasto con le aspettative sociali che definivano nel suo tempo la personalità di una ragazza. Si laureò nel luglio del 1943 e poco dopo divenne assistente presso l’Istituto di Chimica Biologica dell’ateneo patavino. Questa decisione lascia intendere, come lei stessa ha ricordato in più di una circostanza, l’intenzione di dedicarsi alla ricerca, dunque di interpretare la medicina come studio per accrescere il patrimonio di conoscenze a disposizione per migliorare le condizioni di vita dell’umanità.

Ma proprio in quei mesi l’Italia stava entrando in uno dei frangenti più drammatici della sua storia. L’armistizio dell’8 settembre e la conseguente occupazione tedesca imposero a chiunque di prendere posizione, fosse pure per trovare il modo di defilarsi; tanto più a chi aveva attraversato il fascismo con la speranza che prima o poi si sarebbe presentata l’occasione per porre le premesse del suo definitivo superamento. Fin da subito, Marcella Balconi, insieme a Maria Elvira Berrini, la cugina con cui aveva condiviso gli studi – compresa una rocambolesca fuga dal collegio – fin dalle scuole medie, frequentate nell’istituto delle suore rosminiane di Biella e con cui condividerà una parte significativa del percorso professionale, cominciò a collaborare al movimento resistenziale, facendo capo al comando generale delle brigate Garibaldi di Milano, con l’incarico di tenere il collegamento tra le varie formazioni, trasportare armi e materiale di propaganda, oltre a quello di coordinare un gruppo di infermiere e verificare le condizioni sanitarie in cui operavano le bande.1 Nella primavera vennero nominate entrambe ispettrici sanitarie, Maria Elvira in una zona che comprendeva la Valsesia, l’Ossola, la Valcamonica e l’Oltrepò, mentre Marcella in Valtellina. Un incarico di grande responsabilità, che non solo prevedeva numerosi spostamenti, estremamente rischiosi, ma anche frequenti viaggi a Milano, altrettanto rischiosi, per rifornirsi di medicinali presso un magazzino clandestino, che dovevano essere fatti pervenire alle “basi sanitarie” delle formazioni disperse sul territorio. Nell’agosto del 1944, però, è costretta a lasciare la Valtellina e a trasferirsi presso il comando regionale piemontese delle brigate Garibaldi di stanza a Torino, dove fu una delle principali collaboratrici di Giacomo Scotti. Una ricetta con la sua firma contenente una prescrizione per curare un ragazzo affetto da cancrena insospettì a tal punto le autorità saloine, che si ritenne prudenzialmente di disporre il suo allontanamento da quella zona di operazioni. Nella sua nuova veste di ispettore con incarichi organizzativi, Marcella Balconi aveva la responsabilità di oltre duemila partigiani e per questa sua posizione nella struttura operativa del Cvl venne congedata nel giugno del 1945 con il grado di maggiore.

La scelta di prendere parte attivamente alla Resistenza fu la naturale conseguenza delle convinzioni che aveva maturato innanzitutto in famiglia, e, successivamente, frequentando la scuola del professor Fornara. Nonostante la giovane età, al momento dell’armistizio aveva ventiquattro anni, l’adesione al movimento resistenziale non nacque, infatti, sulla spinta degli eventi che travolsero lo stato italiano, fino a cancellarne completamente la presenza tanto nelle regioni occupate dall’esercito anglo-americano, dove si ricostituì faticosamente soltanto grazie alle decisioni assunte dai governi alleati in vista della transizione alla democrazia, quanto nelle regioni consegnate senza colpo ferire all’occupazione tedesca, ma rappresentava l’occasione lungamente attesa di dare forma storica ai sentimenti di opposizione al fascismo, inteso tanto come regime politico, quanto come modello sociale, che non avevano forzatamente potuto essere espressi pubblicamente.1 La violenza fascista aveva drammaticamente segnato la vita della sua famiglia, e la sua personale, fin dall’infanzia; l’antitesi tra le idee che guidavano l’azione politica di suo padre e quelle dello squadrismo degli esordi del movimento si era fin dal principio tradotta in aggressione fisica e disprezzo della vita altrui. Il primo maggio del 1922, mentre era alla guida del corteo organizzato per solennizzare la ricorrenza, vennero esplosi alcuni colpi di pistola all’indirizzo di Giuseppe Balconi, che mancarono il bersaglio, ma uccisero un giovane operario di Romagnano, Giuseppe Giustina, militante del partito comunista. Marcella, che aveva da poco compiuto tre anni, si vide costretta suo malgrado ad assistere alla orribile scena sulla porta di casa, dove stava aspettando il ritorno del padre. Riflettendo su quel terribile avvenimento quasi sul limitare della vita, aveva concluso che il suo viscerale antifascismo nacque in modo istintivo in quel frangente, così come, allargando l’analisi, concludeva che l’esercizio gratuito della violenza praticato dal movimento fascista nelle varie fasi della sua parabola storica aveva suscitato l’opposizione di un’intera generazione.2 Pochi anni dopo, il fascismo, impadronitosi ormai dello stato, inviò Giuseppe Balconi al confino, dal novembre del 1926 al novembre del 1927.

L’incontro con il professor Fornara fu altrettanto determinante nella maturazione della decisione di partecipare al movimento resistenziale. Come racconta lei stessa nel suo intervento del principio degli anni novanta, aveva incominciato a frequentare l’ambulatorio del professor Fornara mentre stava ancora completando gli studi universitari. L’incontro avvenne grazie al legame che univa Fornara e Giuseppe Balconi, professionale, poiché Balconi ricorreva volentieri al parere dell’illustre collega, e politico, la comune militanza socialista, in quegli anni forzatamente clandestina e privata di ogni struttura di partito. Quel primo contatto avvenne su un terreno eminentemente scientifico, la formula dei sulfamidici, di cui Fornara era uno studioso affermato, che, evidentemente, era già al centro degli interessi professionali di Marcella. Ma Fornara non aveva potuto dar corso alla sua vocazione di ricercatore, per la sua intransigenza nei confronti del regime, e aveva dovuto restare all’ospedale di Novara, dove era diventato primario di pediatria. Il suo sogno di contribuire al superamento delle diseguaglianze attraverso la scoperta di farmaci in grado di sconfiggere le malattie endemiche era diventato pratica clinica messa a servizio di chiunque avesse bisogno, senza distinzioni. In quell’ambulatorio, Marcella Balconi non imparò soltanto la scienza medica, ma anche, come ricorda lei stessa, il rigore e la dignità, che nel momento della disfatta dello stato italiano divennero lotta resistenziale. Nel gruppo di giovani medici che Fornara plasmò e che ne raccolse l’eredità, divenendo punti di riferimento per la comunità novarese, conobbe anche Felice Bonfantini, Cino, cui si legò sentimentalmente. La guerra, però, spezzò tragicamente la loro unione. Richiamato nell’esercito poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia, venne inviato sul fronte greco. Dopo l’armistizio si unì alla Resistenza locale, ma venne catturato nel dicembre del 1943 e internato nel campo di Dortmund, dove morì il 13 giugno del 1944.

Se queste sono state le radici profonde che hanno guidato la scelta di prendere parte attivamente al movimento resistenziale, l’ingresso organico nelle formazioni partigiane avvenne sulla spinta di Giuliano Pajetta, suo cugino per parte materna di quattro anni più vecchio di lei, cui era molto legata, che determinò il suo avvicinamento al partito comunista. Circostanza che spiacque molto al padre, che non le rivolse la parola per alcuni giorni, dopo essere stato informato della decisione. Espatriato prima in Francia e poi in Unione sovietica al principio degli anni trenta, Giuliano aveva combattuto in Spagna con le Brigate internazionali ed era stato in seguito internato a Vernet in conseguenza del patto di non aggressione stipulato tra la Germania e l’Unione sovietica nell’agosto del 1939, che poneva i militanti comunisti in una posizione oggettivamente ostile alle democrazie occidentali. Successivamente si era unito alle formazioni della Resistenza francese dell’interno, il maquis, dopo che l’attacco tedesco del giungo 1941 aveva creato l’alleanza di fatto tra le potenze alleate e i sovietici. Nel giugno del 1944 rientrò in Italia, a Milano, in qualità di ispettore delle Brigate Garibaldi e riallacciò i rapporti con Marcella e Maria Elvira, che non si erano mai interrotti del tutto nonostante le sue continue peregrinazioni, cominciando una sistematica opera di persuasione per ottenerne l’adesione al partito. Arrestato qualche mese dopo, venne internato nel campo di Mauthausen, dove ritrovò altri due cugini di ramo materno – erano tutti figli delle sorelle Berrini – Mosè e Leone Mira d’Ercole, partigiani della divisione Beltrami, catturati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro nel dicembre del 1944, uno a Omegna e l’altro ad Armeno. Tra le carte della famiglia Pajetta, è conservata una lettera inviata da Giuliano mentre si trovava in carcere a San Vittore, in cui chiede esplicitamente che «Se dovesse succedermi una disgrazia […] le due cuginette facciano il famoso passo e occupino un posto vuoto», dove il posto vuoto, considerando la datazione della lettera, sembra essere più quello lasciato nelle file del partito, che quello nelle file della Resistenza, cui a quel punto le due cugine collaboravano già attivamente.

La riflessione sull’esperienza resistenziale, sugli inaccettabili costi umani della lotta e sulle cause che tali costi avevano reso inevitabili, la portò a rinunciare definitivamente alla carriera universitaria, interrotta per partecipare alla Resistenza, per lavorare stabilmente come assistente volontaria con il professor Fornara, specializzandosi in pediatria. In questa riflessione ebbe parte rilevante la cura di un fascicolo contenente le biografie dei partigiani caduti in Piemonte, che le venne affidato al termine della guerra. Il fatto che molti di loro fossero morti in giovane età, come in giovane età erano morti i suoi cugini Gaspare Pajetta, caduto diciottenne a Megolo il 13 febbraio del 1944 con il capitano Beltrami, e Riccardo Mira d’Ercole, partigiano della divisione Beltrami, di un anno più giovane di Gaspare, fucilato dai tedeschi ad Anzola il 6 agosto successivo, la convinsero dell’assoluta necessità di rimuovere le condizioni che avevano reso possibile la tragedia che aveva così duramente colpito quella generazione di giovani e le fecero maturare la convinzione di dover partecipare direttamente a tale impresa. Ne aveva individuato uno dei nodi nevralgici nell’impossibilità per larghe fasce della società di accedere a quelle risorse di individuazione che permettono di costruire una personalità in grado di non subire passivamente le imposizioni di chi detiene una qualsiasi autorità e riteneva che la causa principale di tale impossibilità fosse rappresentata dalle condizioni sociali, prima ancora che economiche, in cui crescono i bambini.

Mi pare evidente che l’individuazione di questo nesso prese forma attingendo alle suggestioni ricevute dalla frequentazione del reparto pediatrico guidato da Fornara, dall’esperienza diretta dell’esercizio quotidiano della professione, ma anche dall’idea di fondo che informava la direzione di Fornara, così come fu quella frequentazione a indurla a specializzarsi nel 1951 in neuropsichiatria infantile, come conseguenza della constatazione della preoccupante mancanza di conoscenze adeguate sui disturbi piscologici dei bambini. Anche per Fornara le condizioni di vita dei bambini delle classi popolari erano l’immagine icastica di una società diseguale e anche per Fornara lavorare e spendere la propria vita per migliorare quelle condizioni era la premessa indispensabile per ridurre le diseguaglianze che si manifestavano attraverso di esse. E in questo processo, l’esercizio della professione medica era concepito esso stesso quale azione politica, perché non veniva assunto come dato immutabile il contesto in cui veniva svolta e, di conseguenza, si aveva la chiara consapevolezza che diversi modi di interpretare tale esercizio avrebbero dato luogo a esiti del tutto differenti. Questa capacità di comprendere la valenza politica dell’esercizio della professione medica diventava del tutto naturalmente capacità di progettare riforme in grado di sostenere questo sforzo, e di conseguenza, come abbiamo visto, di incidere sugli assetti sociali più generali. In questa concezione, la politica viene interpretata soprattutto come un insieme di politiche pubbliche, costruite partendo dalla conoscenza dei dati di realtà, che descrivono nel modo più accurato possibile con l’apporto di tecnici e professionisti, i cui obiettivi sono individuati per la capacità che hanno di innescare cambiamenti significativi sullo sfondo di un progetto di trasformazione sociale, tenendo conto, però, delle condizioni oggettive in cui vengono implementate. La percezione delle diseguaglianze era il risultato dell’esperienza di vita, dei bisogni concreti con cui si veniva in contatto, non il risultato della teorizzazione di modelli di società, ragion per cui i progetti di cambiamento delle strutture sociali muovevano dall’incontro con tali bisogni.

L’impronta di questa eredità è stata così profonda, che ha orientato costantemente l’attività pubblica di Marcella Balconi. La dimensione della militanza politica scoperta durante la Resistenza è progressivamente diventata una risorsa da utilizzare per sostenere i progetti d’intervento sociale e definire politiche pubbliche in grado di integrarli e diventare strumenti a supporto di tali interventi. Penso si possa affermare che il suo approccio rappresenti un esempio tra i più alti di quel riformismo di ascendenza socialista praticato dal partito comunista con risultati notevoli, che hanno contribuito in modo decisivo alla modernizzazione della società italiana, ma che è sempre stato pervicacemente negato teoricamente; e questa attitudine, tra i fattori che hanno determinato la fine di quell’esperienza, forse, non è stato il meno rilevante. Come appare evidente da un’analisi, anche per sommi capi, delle materie di cui si è occupata nel suo mandato parlamentare, con interventi caratterizzati da abbondanti riferimenti alle realizzazioni della socialdemocrazia scandinava e dell’Inghilterra laburista,6 della sua azione complessiva come sindaco di Grignasco e di quella come assessore della giunta Pagani a Novara, con delega, addirittura, ai lavori pubblici e al decentramento,8 con l’idea di poter intervenire sulle condizioni strutturali che favoriscono o impediscono la socialità, con sempre presente le conseguenze di tali decisioni sulle opportunità di vita delle persone. Naturale, dunque, che la politique politicienne non l’abbia mai entusiasmata, anzi si può dire che l’abbia sempre sostanzialmente sofferta, tanto da non accettare la ricandidatura al termine della legislatura trascorsa in Parlamento, in larga parte delusa dall’esperienza, nonostante il notevole contributo dato nella definizione di linee di intervento innovative nelle politiche sociali.

La partecipazione al movimento resistenziale ha innescato in alcuni settori della società italiana un rinnovamento politico e culturale che nel dopoguerra ha alimentato le spinte che ne hanno avviato il percorso di modernizzazione. Innanzitutto, accompagnando e favorendo il completamento del processo di integrazione nelle istituzioni dello stato liberale delle masse che ne erano state escluse, brutalmente interrotto dal fascismo con la chiusura del sistema politico e la compressione delle libertà civili. Certo, le condizioni che permisero tale esito dipesero in larga misura dagli assetti geopolitici determinatisi alla fine del conflitto mondiale, con l’affermazione di una potenza egemone liberale che, con l’adozione delle politiche rooseveltiane, si era dotata di strumenti tesi a rinforzare la coesione sociale, dimensione la cui centralità era apparsa cruciale per il mantenimento di società aperte negli anni della depressione. Ma le culture politiche che animarono le resistenze europee seppero reinterpretare in modo originale questa necessità storica, costruendo i sistemi di welfare, sulla scia dei piani Beveridge elaborati in Inghilterra a partire dal 1941, introducendo nell’ordinamento una nuova categoria di diritti, i diritti sociali, pensati come precondizione all’esercizio dei diritti civili e politici della tradizione liberale,10 dando forma compiuta all’intuizione che aveva mosso il movimento socialista dal finire dell’ottocento.

Ma, soprattutto, la Resistenza forgiò una nuova classe dirigente che seppe rinnovare la società italiana, una società completamente disarticolata da vent’anni di fascismo, quel fascismo che aveva distrutto la possibilità stessa di una dialettica civile assorbendola completamente nello stato di ispirazione gentiliana, e dalle conseguenze di una guerra tragica, segnata dai bombardamenti, dalla persecuzione razziale, dalla fame. Se in circa quindici anni il nostro Paese è riuscito a risollevarsi, fino a entrare nel novero degli stati più progrediti, è stato grazie alla progressiva crescita di una dinamica civile, che ha trainato la crescita di tutta la società nel suo complesso. Scorrendo le biografie dei protagonisti che hanno dato un’impronta ai settori che più di altri hanno segnato questa rinascita – design, giornalismo, cinema, professioni, studi, letteratura – si noterà facilmente che tutti hanno preso parte a vario titolo alla Resistenza, magari senza esibirlo troppo, perché erano molto giovani o perché non è stata un’esperienza intorno a cui si è fissata la loro identità. Ma da quella partecipazione avevano tratto l’insegnamento che le ambizioni individuali, che pure sono legittime, non possono essere perseguite senza tenere conto dei vincoli sociali, senza incorporare nel proprio corso d’azione la necessità di rafforzare le dimensioni che tengono insieme le società.

Credo che l’eredità più duratura della Resistenza sia stata questo sguardo sul mondo. Uno sguardo che Marcella Balconi ha saputo coltivare con costanza e lucidità, interpretandolo con una passione civile inesauribile. Uno sguardo prezioso, che getta ancora la sua luce di noi.

Il saggio di Giovanni Cerutti è contenuto nel volume Marcella Balconi cent’anni. Il tempo ritrovato, edito dall’Anpi provinciale di Novara. Chi fosse interessato può richiederne una copia alla segreteria dell’Anpi, inviando una mail a Anpi anpinovara@gmail.com

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