E’ stata una vigilia di Natale decisamente anomala quella vissuta in città. Pochissima gente lungo le strade del centro, nel rispetto delle ultime disposizioni anti Covid. Le persone incrociate erano quasi tutte intente a raggiungere le chiese dove la tradizionale messa natalizia era stata anticipata alle 20.30. Pochi intimi anche in Duomo, dove il vescovo, dopo aver salutato coloro che stavano seguendo la cerimonia attraverso la diretta in streaming, ha quasi voluto paragonare la sua omelia a una conversazione familiare.
Monsignor Brambilla si è rivolto inizialmente ai «medici e agli operatori sanitari, medici e infermieri, agli insegnanti e a tutta la galassia del volontariato che in questi mesi ha dato una testimonianza esemplare. Il Natale ci fa sentire, ascoltare la nostalgia della nascita, non solo come inizio della vita, ma quel momento in cui la meraviglia del mondo sta davanti agli occhi del Bambino». Natale come ritorno alle origini di noi stessi, della nostra famiglia, «soprattutto in questo momento di smarrimento e di incertezza; anzi, il Natale suscita il desiderio di sognare un futuro di speranza». E tornando agli operatori della sanità, ha voluto definirli come «angeli che ci accompagnano in questi mesi per riuscire a rivedere le stelle. Non facendoci fare precipitose fughe in avanti, ma neanche frenate».
Poi, da quello che lui ha voluto chiamare «il cassetto dei ricordi», ha voluto raccontare un episodio del Natale del 1960, «quando in oratorio sentii la ra registrazione su un disco di un discorso dell’allora arcivescovo di Milano Giambattista Montini». Un testo sepolto nella memoria e poi recuperato fortunosamente nei mesi scorsi grazie a una pubblicazione.
Monsignor Brambilla, nel ricordare che questo secolo è iniziato con la tragedia delle “Torri Gemelle” e ha concluso il suo secondo decennio con questa pandemia, ha voluto soffermarsi sulle parole del futuro papa Paolo VI: «Montini, nel periodo ancora all’inizio di quello che sarebbe stato il “boom economico”, era preoccupato che in questo sviluppo prodigioso non si perdesse il senso di Dio e la spiritualità dell’uomo. Oggi possiamo forse dire una cosa simile: anche la rinascita che ci sta davanti ha bisogno di un supplemento d’anima». Rinascita, sempre citando Montini, «vuol dire che siamo esseri fragili, dove la fragilità non è solo un limite che siamo chiamati a superare. Senza l’umiltà di aver imparato nel corso di questo anno la nostra fragilità, senza il dono che osa generare la vita intorno a noi, il nostro domani non può essere una sfida alla speranza. Poi riscoprire il senso di felicità rispetto a quello dell’eternità: di fronte a tanti anziani che ci hanno lasciati forse non siamo stati capaci di dire la parola più importante. Infine, essere testimoni di un messaggio di parole e opere, quelle che generano un senso di responsabilità per il futuro prossimo. Non diciamo “dopo non sarà più come prima”. Dopo sarà diverso solo se saremo uomini e donne “natali”. Persone che mettano al centro la vita della città, il noi al posto dell’io, la possibilità invece della competizione, la felicità in luogo del sospetto, i beni comuni invece dell’accaparramento».