«Di quella storia non potrò mai dimenticarmene del tutto; dentro di me resterà sempre un segno indelebile. Purtroppo ho perso la fiducia negli altri, soprattutto negli uomini. Non riesco più a creare legami, ho paura a ricominciare una nuova storia, preferisco vivere da sola: alla solitudine ci si abitua perché la solitudine fa paura solo a chi non sa confrontarsi con sé stessi. Ho il mio lavoro, la mia indipendenza, i miei hobby. All’inizio è stata dura ma ce l’ho fatta».
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«L’8 marzo? Deve essere un momento di riflessione. Ecco: io vorrei dire a tutte le donne di non permettere mai che un uomo alzi le mani, che le insulti, che le umili, anche se capita una o due volte soltanto».
Perché alla violenza non ci sono scuse.
«Quelli sono campanelli d’allarme. Chi alza le mani o umilia, insulta, denigra non ama, vuol solo sottomettere, annientare, annullare».
E lei, Maria (il nome è chiaramente di fantasia) sa bene cosa vuol dire “essere annullata”.
Sono passati anni da quel brutto periodo della sua vita che lei non dimentica perché non può dimenticare, ma con l’aiuto di molti è riuscita a ricominciare.
«Ce la possiamo fare – dice – Non siamo sole».
E’ una donna minuta, dagli occhi scuri che guardano sempre oltre e nei quali è rimasta l’ombra della paura, della diffidenza, una sorta di perenne allerta. La sua storia me l’aveva raccontata anni fa, tra timori e titubanze.
Aveva conosciuto un uomo che, poco dopo l’inizio della loro convivenza, da persona gentile e premurosa si era trasformato in un carceriere. La prima avvisaglia una sera, dopo una discussione, quando lui aveva fatto il gesto di alzare la mano, come per darle una sberla ma non era successo niente; ma pochi giorni dopo era iniziato l’incubo, tutto perché, pare, qualcuno gli aveva detto che lei, prima di lui, aveva avuto altre storie.
Sberle, pugni e a calci le avevano fratturato le costole. Poi l’aveva chiusa in casa per due giorni, aveva abbassato le tapparelle in modo che i vicini pensassero che fossero partiti e infine l’aveva costretta, sotto minaccia, a seguirlo in un’altra città.
Aveva dovuto licenziarsi, non poteva andare al lavoro in quelle condizioni, sarebbe stata costretta a dare spiegazioni e la paura di quello che lui avrebbe potuto farle ancora era troppo forte, la paralizzava. Lontana da casa aveva subito altre violenze fisiche ed era anche finita in ospedale.
Alla fine erano tornati a casa e un giorno, approfittando della sua assenza, era riuscita a scappare ed era andata in Questura.
«Li mi hanno aiutata molto». Pur a distanza di tanti anni, aveva fatto molta fatica a raccontare quel periodo della sua vita, e adesso non vuole più parlarne perché ogni volta rivive la paura.
«Incubi no – dice – ma qualche volta mi passa davanti agli occhi qualche flash, qualche scena».
«Ce la possiamo fare – ripete – Non siamo sole»