«Prima la febbre poi i genitori positivi, il medico non mi ha mai fatto fare un tampone»

«Prima la febbre, poi i genitori positivi. Il mio medico non mi ha mai fatto fare un tampone. Nonostante lo abbia contattato più volte, anche spiegandogli che lavoro in una scuola dove si è sempre fatto lezione in presenza, mi ha detto che non era necessario essere inserita in piattaforma. Solo insistendo un po’ sul fatto che mi sentivo stanca sono riuscita a farmi dare altri giorni di mutua, per un totale di 10. Dopodiché sono rientrata al lavoro con tanti punti interrogativi che mi giravano per la testa». Inizia così il racconto di una novarese, i cui sintomi di «febbre, raffreddore e male alle ossa» sono comparsi il 22 ottobre. «Ormai sto benissimo – precisa – ma con il passare delle settimane sono accadute una serie di cose e credo che in questa vicenda ci sia qualcosa che non va. Ma soprattutto ho scoperto a che molte altre mie colleghe quarantenni è successa la stessa cosa: bisognava per forza essere ultrasessantenni o con febbre alta persistente per essere inseriti in piattaforma?».

 

La donna ricostruisce fatti e date di quanto accaduto. «Il 18 ottobre sono andata con i miei in un ristorante fuori provincia e abbiamo trascorso la domenica insieme. Tra il 20 e il 21 mio padre e mia madre hanno iniziato a non stare bene. Il 22 è venuta la febbre anche a me e il mio medico mi ha dato 3 giorni di malattia. Nel frattempo i miei genitori continuavano ad avere la febbre alta entrambi e il 30 ottobre l’Usca (Unità speciali di comunità assistenziali, ndr) è andata a casa loro per fare i tamponi, poi risultati positivi. Ho fatto presente la cosa al mio medico, ma mi ha risposto che siccome ero senza febbre da ormai 48 ore non era necessario mettermi in piattaforma. Ma non mi fidavo a tornare a scuola, vista la situazione, per cui mi sono fatta dare altri giorni di malattia e alla fine sono rientrata al lavoro il 2 novembre. Sono tante le domande che mi pongo: perché sono stata rimandata al lavoro mentre ai miei genitori veniva diagnosticata la positività al Covid? Perché non sono stata trattata come un caso da contatto? E com’è possibile che i medici di famiglia facciano diagnosi sulla base di una semplice telefonata? Mio padre ora ha finito la quarantena, ma avverte ancora dei problemi polmonari, per cui ha chiesto al suo medico di prescrivergli una radiografia. La risposta è stata che si rifiuta di andare a visitarlo a casa e gli ha detto di non andare in ambulatorio. Quindi è stato costretto ad attivarsi per farla privatamente. E ripensando alla domenica in cui siamo stati insieme, qualcuno avrà avvisato il ristorante che quel giorno da loro c’erano state due persone risultate poi positive? Mi ricordo che avevamo dovuto lasciare dati e riferimenti di tutti».

A quest’ultima domanda riusciamo a dare una risposta, quella che ci ha fornito gentilmente la titolare del locale: «No, qui non siamo mai stati avvertiti da nessuno. Siamo chiusi da quando siamo entrati in zona rossa e non facciamo neppure l’asporto, ma al telefono e alle varie comunicazioni che ci arrivano rispondiamo sempre, come vede».

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Elena Ferrara

Nata a Novara, diplomata al liceo scientifico Antonelli, si è poi laureata in Scienze della Comunicazione multimediale all'Università degli studi di Torino. Iscritta all'albo dei giornalisti pubblicisti dal 2006.

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«Prima la febbre poi i genitori positivi, il medico non mi ha mai fatto fare un tampone»

«Prima la febbre, poi i genitori positivi. Il mio medico non mi ha mai fatto fare un tampone. Nonostante lo abbia contattato più volte, anche spiegandogli che lavoro in una scuola dove si è sempre fatto lezione in presenza, mi ha detto che non era necessario essere inserita in piattaforma. Solo insistendo un po' sul fatto che mi sentivo stanca sono riuscita a farmi dare altri giorni di mutua, per un totale di 10. Dopodiché sono rientrata al lavoro con tanti punti interrogativi che mi giravano per la testa». Inizia così il racconto di una novarese, i cui sintomi di «febbre, raffreddore e male alle ossa» sono comparsi il 22 ottobre. «Ormai sto benissimo – precisa – ma con il passare delle settimane sono accadute una serie di cose e credo che in questa vicenda ci sia qualcosa che non va. Ma soprattutto ho scoperto a che molte altre mie colleghe quarantenni è successa la stessa cosa: bisognava per forza essere ultrasessantenni o con febbre alta persistente per essere inseriti in piattaforma?».   La donna ricostruisce fatti e date di quanto accaduto. «Il 18 ottobre sono andata con i miei in un ristorante fuori provincia e abbiamo trascorso la domenica insieme. Tra il 20 e il 21 mio padre e mia madre hanno iniziato a non stare bene. Il 22 è venuta la febbre anche a me e il mio medico mi ha dato 3 giorni di malattia. Nel frattempo i miei genitori continuavano ad avere la febbre alta entrambi e il 30 ottobre l'Usca (Unità speciali di comunità assistenziali, ndr) è andata a casa loro per fare i tamponi, poi risultati positivi. Ho fatto presente la cosa al mio medico, ma mi ha risposto che siccome ero senza febbre da ormai 48 ore non era necessario mettermi in piattaforma. Ma non mi fidavo a tornare a scuola, vista la situazione, per cui mi sono fatta dare altri giorni di malattia e alla fine sono rientrata al lavoro il 2 novembre. Sono tante le domande che mi pongo: perché sono stata rimandata al lavoro mentre ai miei genitori veniva diagnosticata la positività al Covid? Perché non sono stata trattata come un caso da contatto? E com'è possibile che i medici di famiglia facciano diagnosi sulla base di una semplice telefonata? Mio padre ora ha finito la quarantena, ma avverte ancora dei problemi polmonari, per cui ha chiesto al suo medico di prescrivergli una radiografia. La risposta è stata che si rifiuta di andare a visitarlo a casa e gli ha detto di non andare in ambulatorio. Quindi è stato costretto ad attivarsi per farla privatamente. E ripensando alla domenica in cui siamo stati insieme, qualcuno avrà avvisato il ristorante che quel giorno da loro c'erano state due persone risultate poi positive? Mi ricordo che avevamo dovuto lasciare dati e riferimenti di tutti». A quest'ultima domanda riusciamo a dare una risposta, quella che ci ha fornito gentilmente la titolare del locale: «No, qui non siamo mai stati avvertiti da nessuno. Siamo chiusi da quando siamo entrati in zona rossa e non facciamo neppure l'asporto, ma al telefono e alle varie comunicazioni che ci arrivano rispondiamo sempre, come vede».

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Nata a Novara, diplomata al liceo scientifico Antonelli, si è poi laureata in Scienze della Comunicazione multimediale all'Università degli studi di Torino. Iscritta all'albo dei giornalisti pubblicisti dal 2006.