Quando pensi alla medicina ma irrompe una “lectio” di Barbero

Il popolare storico e divulgatore, docente dell'UPO, ha calamitato l'attenzione della platea giovedì mattina durante l'apertura dei lavori del convegno dedicato all'invecchiamento. Spaziando da Colombo a Dante, dalla Bibbia a Cicerone su come gli antichi pensassero all'idea della morte

D’accordo che in sede di presentazione era stata da più parti sollevata la necessità dell’interdisciplinarietà, ma nessuno si poteva immaginare che il contributo forse più coinvolgente per la platea potesse arrivare da Alessandro Barbero. Chiamato quasi a fare da “collante” fra i saluti istituzionali e la prima sessione dei lavori del convegno dedicato all’invecchiamento, giovedì mattina nell’Aula Magna dell’Università del Piemonte Orientale, il popolare storico e divulgatore ha finito per tenere una vera e propria “lectio” sul tema. Partendo da qualche riflessione «su come gli esseri umani si siano sempre posti il problema dell’invecchiamento in epoche dove non si possedevano mezzi per intervenire concretamente nel migliorare le condizioni generali. Tuttavia il problema se lo ponevano e tentavano di dare delle soluzioni».


Primo spunto: una lettera di Cristoforo Colombo indirizzata a Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia del 7 luglio 1503, dove il navigatore genovese scriveva di sentirsi invecchiare (“non ho un pelo del mio corpo che non sia bianco”). Non abbiamo una data precisa, ma gli storici sono concordi nel ritenere che Colombo sia nato nel 1451, quindi all’epoca di questa lettera avesse 52 anni, ma si sentisse già “vecchio”: «Certo – ha detto Barbero – in quell’epoca si invecchiava prima, ma questo ci offre uno spunto e un’idea di come l’argomento venisse affrontato. Che invecchiare fosse un dramma lo pensavano tutti; e tutti hanno sempre coltivato la speranza di poter essere un’eccezione».


Secondo spunto la Bibbia, dove in alcuni passi si ipotizza che la speranza di vita sia di 70 anni, ragione «per cui Dante, quando compie nel 1300 il suo immaginario viaggio nell’oltretomba, può dire di essere “nel mezzo del cammin di nostra vita”, anche se poi il padre della nostra lingua si spegnerà a soli 56 anni». Per Barbero la Bibbia testimonia una vera e propria “ossessione” nei confronti della speranza degli uomini di vivere più a lungo, da Matusalemme alle generazioni – riportate nel libro della Genesi – che si sono succedute dopo Adamo, sino ad Abramo e Isacco, con personaggi vissuti addirittura centinaia di anni: «L’illusione che queste cose potessero ancora accadere in qualche caso eccezionale caratterizzarono la cultura cristiana dei primi secoli», anche attraverso alcuni padri della Chiesa particolarmente longevi. La realtà, secondo lo storico torinese, fu probabilmente diversa: «Si invecchiava presto, ma anche la cultura dell’epoca incoraggiava non tanto a combattere l’invecchiamento ma a prenderne atto. Tutte le civiltà che ci hanno preceduto hanno fatto i conti con l’evoluzione della vita umana e hanno avuto un interesse molto forte per individuare le tappe, i momenti di passaggio, le fasi. Noi ragioniamo in maniera molto “fluida”, mentre i nostri antenati cercavano una certa precisione, dai Greci, che suddividevano le fasi della vita in fasce della durata di sette anni, sino ai Romani», citando la celebre “Cato Maior de senectude”, opera filosofica di Cicerone su Catone il Censore.


Il realtà una riflessione poteva essere quella che già nel mondo antico le persone potevano morire a tutte le età, quindi «non c’era nessuna ragione per cui un anziano potesse sentirsi vicino alla morte più di uno giovane. Poteva capitare a chiunque in qualunque momento. Ma con l’avvento del Cristianesimo si è spostata l’attenzione sul «prepararsi a morire, accettandone la cosa, perché la morte non è la fine di tutto. Il modo migliore per non stare male quando si invecchia è quello di pensare alla morte. La nostra epoca è così diversa da quelle che ci hanno preceduto. Noi siamo esseri umani esattamente come quelli del passato, con le stesse angosce, ma siamo anche la civiltà del fare e investiamo tutto in questo. In passato si investiva nella riflessione su cosa volesse dire non essere più un bambino o un adolescente, sapere che fra poco saresti diventato vecchio e che morirai. Forse in questo noi rischiamo di riflettere un po’ meno».

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Luca Mattioli

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Quando pensi alla medicina ma irrompe una “lectio” di Barbero

Il popolare storico e divulgatore, docente dell’UPO, ha calamitato l’attenzione della platea giovedì mattina durante l’apertura dei lavori del convegno dedicato all’invecchiamento. Spaziando da Colombo a Dante, dalla Bibbia a Cicerone su come gli antichi pensassero all’idea della morte

D'accordo che in sede di presentazione era stata da più parti sollevata la necessità dell'interdisciplinarietà, ma nessuno si poteva immaginare che il contributo forse più coinvolgente per la platea potesse arrivare da Alessandro Barbero. Chiamato quasi a fare da “collante” fra i saluti istituzionali e la prima sessione dei lavori del convegno dedicato all'invecchiamento, giovedì mattina nell'Aula Magna dell'Università del Piemonte Orientale, il popolare storico e divulgatore ha finito per tenere una vera e propria “lectio” sul tema. Partendo da qualche riflessione «su come gli esseri umani si siano sempre posti il problema dell'invecchiamento in epoche dove non si possedevano mezzi per intervenire concretamente nel migliorare le condizioni generali. Tuttavia il problema se lo ponevano e tentavano di dare delle soluzioni».


Primo spunto: una lettera di Cristoforo Colombo indirizzata a Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia del 7 luglio 1503, dove il navigatore genovese scriveva di sentirsi invecchiare (“non ho un pelo del mio corpo che non sia bianco”). Non abbiamo una data precisa, ma gli storici sono concordi nel ritenere che Colombo sia nato nel 1451, quindi all'epoca di questa lettera avesse 52 anni, ma si sentisse già “vecchio”: «Certo – ha detto Barbero – in quell'epoca si invecchiava prima, ma questo ci offre uno spunto e un'idea di come l'argomento venisse affrontato. Che invecchiare fosse un dramma lo pensavano tutti; e tutti hanno sempre coltivato la speranza di poter essere un'eccezione».


Secondo spunto la Bibbia, dove in alcuni passi si ipotizza che la speranza di vita sia di 70 anni, ragione «per cui Dante, quando compie nel 1300 il suo immaginario viaggio nell'oltretomba, può dire di essere “nel mezzo del cammin di nostra vita”, anche se poi il padre della nostra lingua si spegnerà a soli 56 anni». Per Barbero la Bibbia testimonia una vera e propria “ossessione” nei confronti della speranza degli uomini di vivere più a lungo, da Matusalemme alle generazioni – riportate nel libro della Genesi – che si sono succedute dopo Adamo, sino ad Abramo e Isacco, con personaggi vissuti addirittura centinaia di anni: «L'illusione che queste cose potessero ancora accadere in qualche caso eccezionale caratterizzarono la cultura cristiana dei primi secoli», anche attraverso alcuni padri della Chiesa particolarmente longevi. La realtà, secondo lo storico torinese, fu probabilmente diversa: «Si invecchiava presto, ma anche la cultura dell'epoca incoraggiava non tanto a combattere l'invecchiamento ma a prenderne atto. Tutte le civiltà che ci hanno preceduto hanno fatto i conti con l'evoluzione della vita umana e hanno avuto un interesse molto forte per individuare le tappe, i momenti di passaggio, le fasi. Noi ragioniamo in maniera molto “fluida”, mentre i nostri antenati cercavano una certa precisione, dai Greci, che suddividevano le fasi della vita in fasce della durata di sette anni, sino ai Romani», citando la celebre “Cato Maior de senectude”, opera filosofica di Cicerone su Catone il Censore.


Il realtà una riflessione poteva essere quella che già nel mondo antico le persone potevano morire a tutte le età, quindi «non c'era nessuna ragione per cui un anziano potesse sentirsi vicino alla morte più di uno giovane. Poteva capitare a chiunque in qualunque momento. Ma con l'avvento del Cristianesimo si è spostata l'attenzione sul «prepararsi a morire, accettandone la cosa, perché la morte non è la fine di tutto. Il modo migliore per non stare male quando si invecchia è quello di pensare alla morte. La nostra epoca è così diversa da quelle che ci hanno preceduto. Noi siamo esseri umani esattamente come quelli del passato, con le stesse angosce, ma siamo anche la civiltà del fare e investiamo tutto in questo. In passato si investiva nella riflessione su cosa volesse dire non essere più un bambino o un adolescente, sapere che fra poco saresti diventato vecchio e che morirai. Forse in questo noi rischiamo di riflettere un po' meno».

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