Tanti gli argomenti messi subito sotto i riflettori questa mattina, giovedì 29 settembre, all’apertura della due giorni del convegno dedicato ai risultati ottenuti dall’Aging project dell’Università del Piemonte Orientale. La popolazione over 65 è in costante aumento, ma – fortunatamente – si invecchia meglio, anche se le risorse per un buon funzionamento dei servizi sanitari non sono sufficienti e le risorse – non solo economiche – andrebbero meglio gestite attraverso una maggiore multidisciplinarietà.
«Due giornate – ha detto Gianluca Aimaretti, direttore del Dipartimento di Medicina traslazionale dell’UPO – che hanno come obiettivo riflettere e discutere sulle problematiche relative all’invecchiamento, perchè il nostro dipartimento negli ultimi anni, grazie ai finanziamenti ricevuti dal Ministero, ha approfondito in varie maniere aspetti medici e biologici sul tema».
Il progetto, sostenuto dal 2017, ha ricordato il magnifico rettore dell’Ateneo Gian Carlo Avanzi, «presentando un’idea estremamente moderna di interdisciplinarietà su un tema che sarà rilevante per molti anni nella nostra società». A livello demografico le stime parlano per il 2030 di un 35% di over 65 anni nel nostro Paese, con un tasso di natalità molto basso: «Quindi problemi sono enormi, legati non solo agli aspetti delle cure delle malattie a carico della sanità, ma più in generale dell’economia». Concetto semplice: sempre meno giovani lavorano e quindi in grado di “finanziare” le pensioni per gli anziani che vivono sempre di più.
Ma oltre a invecchiare di più, si nasce anche meno: «A Novara – ha detto l’assessore Raffaele Lanzo portando il saluto dell’amministrazione comunale ed essendo lui stesso titolare della delega ai Servizi demografici – solo nel 2021, dopo un “annus horribilis” dovuto al Covid, si è registrata un’inversione di tendenza per quanto riguarda il rapporto nascite – decessi, interrompendo una dinamica in atto da ormai un decennio. Anche questo 2022 confermerebbe questa tendenza, però il dato fa riflettere. La società nell’ultimo mezzo secolo è cambiata. Prima eravamo abituati a nuclei familiari con quattro, cinque, sei componenti, oggi non più. Poi bisogna considerare che fortunatamente le aspettative di vita si sono allungate, le cure sono migliorate, ma questo farà sì che nei prossimi anni si creino scompensi socialmente da non sottovalutare».
Per Gianfranco Zulian, direttore generale dell’Azienda ospedaliero universitaria Maggiore della Carità di Novara, «la possibilità di studiare le patologie correlate all’invecchiamento è quella a cui tendiamo. Questo va correlato a quello che dev’essere l’aspettativa di localizzazione dei nostri servizi sanitari. Quello dell’andamento demografico è un problema importante: si è passati da un’aspettativa di vita mondiale nei primi del ‘900 di 33 anni circa a quella di questo nostro ultimo periodo di circa 76. Cifra che in Italia sale addirittura a 83. Questo ci fa capire il grave impegno che siamo tenuti ad affrontare sia dal punto di vista della medicina sia da quello dell’organizzazione dei servizi sanitari».
Visto che la popolazione anziana è così numerosa, «un convegno come questo ha come compito quello di chiarire alcuni aspetti di tipo medico e sanitario correlati all’invecchiamento, nella speranza che venga portato un aiuto a quello organizzativi. Se il problema dell’invecchiamento non è nuovo le normative per tentare di intercettare l’invecchiamento patologico devono essere quelle di tentare una riorganizzazione degli assetti sanitari territoriali. Abbiamo aspettato tanto e nel frattempo la cronicità è aumentata, fortunatamente insieme all’aspettativa di vita. Questo fa capre anche la bontà del servizio sanitario italiano, patrimonio che dobbiamo difendere. Però, proprio perché la popolazione è invecchiata e alcune risorse non sono state ben collocate sul territorio, c’é il rischio che possa “saltare il banco”, perché
le risorse messe a disposizione non sono più sufficienti a garantire il buon funzionamento dei servizi». Per Zulian tutti dovranno provarci, «ma il “must” finale è quello di immaginarci ora di fare medicina non dove il paziente sia curato per malattie. Un concetto difficile da far passare, per il quale occorre lavorare sempre di più in forma multidisciplinare».