Aby Warburg: tra antropolgia e storia dell’arte

Dalla rubrica Chez Mimich A cura di Mario Grella

Leggere un volume poderoso, complesso e zeppo di riferimenti come quello di Aby Warburg “Fra antropologia e storia dell’arte” (Millenni Einaudi) e che raccoglie saggi, conferenze e frammenti del grande storico dell’arte tedesco, può creare più di un imbarazzo e anche qualche timore. Imbarazzi e timori che nella sontuosa introduzione di Maurizio Ghelardi non possono che moltiplicarsi e forse farci sentire persino inadeguati per la lettura di questo tomo di settecento fittissime pagine che ha occupato parte della mia estate.

Non potevo più tuttavia rimandarne la lettura per il posto che questa opera occupa nella letteratura storiografica-artistica. Warburg fu molto di più di uno storico dell’arte, potremmo dire che è uno studioso eclettico e di difficile collocazione. La sua originalità nasce indubbiamente dal fatto che per lui la storia dell’arte non può essere raccontata semplicemente come un processo storico-evolutivo delle forme e dei segni, ma piuttosto come una “storia psicologica illustrata” capace di mostrare la distanza tra l’impulso e l’azione verso l’oggetto. Infatti qualsiasi suddivisione della storia universale in periodizzazioni, rinuncia alla definizione di un habitus spirituale di un determinato gruppo umano. Insomma, cercando di essere schematici, la storia dell’arte non supporterebbe la spiegazione di ciò fa nascere e muovere l’arte stessa. L’arte, insomma, non potrebbe essere narrata come mero “svolgimento” poiché tratta di forme ed immagini in cui sono metabolizzati aspetti costitutivi dell’esistenza e dell’esperienza umane. Ed è in uno dei testi di una conferenza che Warburg esplicita questa sua concezione, con una accurata indagine svolta nel 1858 tra gli indiani Pueblo, che vivevano stabilmente in un territorio compreso tra l’Arizona e il Nuovo Messico, territori la cui caratteristica principale era (ed è) l’aridità della terra e il clima particolarmente siccitoso.

È facile immaginare che l’acqua fosse, per gli indiani Pueblo, la primaria fonte di vita e di relativo benessere ed è altrettanto facile pensare che i Pueblo pensassero al temporale come ad una vera e propria benedizione. Il temporale si manifesta attraverso la saetta e il profilo della saetta assomiglia al serpente che in questi luoghi è un animale piuttosto comune. Ecco allora che per una sorta di trasposizione dei significati visivi, il serpente divenne animale sacro per eccellenza. Warburg racconta di riti nei quali i Pueblo danzavano con la testa del serpente in bocca, in una operazione simbolica di sostituzione e di identificazione con la divinità. Insomma a livello metodologico, senza questo approccio antropologico, le radici profonde dell’arte sono destinate a sfuggirci. O per meglio dire, comprenderemmo nella migliore delle ipotesi, le modificazioni formali, le evoluzioni o le involuzioni, ma il senso profondo dell’arte sarà, resterà lontano dall’essere compreso. Del resto senza un approccio antropologico non si potrebbe comprendere come lo stesso animale, il serpente appunto, nelle rappresentazioni dell’arte classica, per fare un esempio nel Gruppo del Laocoonte, sia un mostro orrendo che non esita a stritolare nelle sue spire Antifate e Tymbreus, figli di Laocoonte. Ma di contro l’antichità classica fu anche capace di trasformare e recuperare l’immagine positiva del serpente rappresentando Asclepio come salvatore con due serpenti in mano.

Nella seconda parte del volume l’attenzione è tutta per il celebre “Atlante di Mnemosyne” che raccoglie centinaia e centinaia di immagini, spesso sorta di collage e fotomontaggi, un archivio che traccia i confini di una disciplina che va molto oltre la storia dell’arte e che ingloba in sé molte tematiche filosofiche, sociologiche ed antropologiche che illuminano molti nessi e gangli fondamentali dello sviluppo delle arti. Gli studi sul Rinascimento italiano sono tra i più originali e profondi tra tutti quelli che sono stati scritti nel Novecento (e forse anche fuori dai confini temporali del secolo breve). Ne “L’eredità dell’antico” (nella terza parte del volume) l’attenzione è posta, tra tanti altri argomenti, anche sulla fondamentale figura di Sandro Botticelli e su tutti gli intricati riferimenti all’antico, presenti nelle sue opere, e che furono suggeriti all’artista dal Poliziano. Come non identificare , per fare un solo esempio, le due figure di Zefiro e Flora, presenti nella celeberrima “Primavera”, come provenienti dai “Fasti” di Ovidio? Magnifiche anche le pagine su “Le Stanze” dello stesso Poliziano che furono per Botticelli la fonte d’ispirazione per la “Nascita di Venere”.

Sarebbe qui impossibile anche solo elencare i tanti e suggestivi temi trattati da Warburg nei saggi presenti nel volume che hanno per oggetto anche temi poco trattati, ma di capitale importanza per una vera e profonda comprensione del Rinascimento italiano. Un esempio potrebbe essere la trattazione sulla genesi e i significati delle fastose feste fiorentine o i soggetti dei preziosi arazzi fiamminghi. Aby Warburg fu l’anello mancante tra la storiografia artistica e l’antropologia. Senza questi studi si sarebbe continuato a raccontare una storia delle forme molte volte non sustanziata da quelle credenze ancestrali e da quegli istinti primordiali, che possono davvero restituirci il senso completo di un’opera d’arte e di tutta le storie (plurale) dell’arte. 

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Mario Grella

Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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