Adelphi: le origini di una casa editrice (1938-1994)

Scrivere del volume di Anna Ferrando, “Adelphi” (Carrocci Editore) è facile, così come è altrettanto facile leggere il sostanzioso volume, ma naturalmente dipende molto da chi legge e da cosa ha rappresentato la casa editrice Adelphi nella sua vita. Se siete tra quelli che per motivi generazionali o esistenziali hanno scelto di riempirsi la casa di volumi Adelphi, potete tranquillamente continuare a leggere, se invece, al contrario, qualche volume Adelphi vi è capitato per caso tra le mani, allora questa lettura (del mio commento e del libro stesso), potrebbe essere noiosa e superflua.

Adelphi nasce nel 1938, in un’Italia umiliata dalle leggi razziali e dalle persecuzioni antisemite, per merito delle menti vulcaniche di Alberto Zevi, Luciano Foà, Bobi Bazlen, Claudio Rugafiori che avevano un sogno del cuore, ovvero il proposito di far uscire l’editoria, o almeno una parte di essa, dall’eurocentrismo, dalla cultura filosofica per attingere alla scienza, alle religioni e alle tradizioni orientali, al buddhismo, all’islamismo, alla psicanalisi e, soprattutto alla grande cultura Mitteleuropea. Il taglio, fin dai difficili anni iniziali, era chiaramente antistoricista, a tutto vantaggio della ricerca del “libro unico” come si ostinava a chiamarlo Bobi Bazlen. È paradossale che il competitor ideale della nascente Adelphi fu subito Einaudi. La casa editrice torinese era infatti agli antipodi delle idealità che covavano nel cuore degli “adelphi”. Einaudi, in quegli anni, fu quasi completamente organica ad un progetto politico di cambiamento della società. Il paradosso, a mio modo di vedere, è che nei decenni successivi, a partire dal 1970 almeno, i lettori di Einaudi e quelli di Adelphi furono assolutamente sovrapponibili. Eppure “l’impolitico” era certamente uno dei fili conduttori di tutto il catalogo Adelphi (non è certo un caso che “Considerazioni di un impolitico” di Thomas Mann, entrò nel catalogo nel 1997).

Ma Adelphi cominciò da Nietzsche (con l’opera omnia curata da Giorgio Colli), filosofo impolitico per antonomasia, nonostante l’uso e l’abuso che ne fece la destra del post sessantotto. Adelphi, come ebbe a scrivere un pezzo da novanta del suo catalogo, Elena Croce, figlia di Benedetto Croce, “contribuiva ad aprire gli ancora angusti orizzonti del panorama intellettuale italiano” che dal suo punto di vista era troppo impregnato di ideologia per poter scoprire dell’altro. E così, sulla scorta delle ricerca del “libro unico”, il catalogo di Adelphi, tra difficoltà economiche e battaglie ideali anche all’interno della redazione, è andato arricchendosi di fiori preziosi. E qui, tutti noi, quelli di cui sopra, possiamo sbirciare tra gli scaffali delle nostre biblioteche e scorgervi le copertine color pastello di Leonardo Sciascia, Guido Ceronetti, Karen Blixen, Ingebor Bachman, Fleur Jaeggy, Erik Satie, Douglas R. Hofstadtrer, Emanuele Severino, Hilary Putnam, Vladimir Nabokov, Giuseppe Pontiggia, Paul Velery, Elias Canetti, Joseph Roth, Alberto Arbasino, Thomas Bernhard, Arthur Schnitzler, Franz Werfel, Adolf Loos, Ludwig Wittgenstein, Katherine Mansfield, George Simenon, Massimo Cacciari, citati volutamente un po’ a caso, ma in modo che ognuno di noi possa aggiungerci i propri.

Voglio solo ricordare qui, la pubblicazione de “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera nel 1985 che divenne non tanto un caso letterario, ma addirittura un fatto di costume. Quando a dirigere Adelphi arrivò Roberto Calasso, la ricerca del “libro unico” divenne la sicura bussola che ancora guida gli esploratori adelphici. Calasso, divenne anche uno degli autori più apprezzati e affascinanti della casa editrice, già dai tempi del colossale “La rovina di Kasch”, opera assolutamente nuova come concezione e ampiezza storico-filosofica.

Questa esasperata ricerca del “libro unico” portò ad Adelphi anche qualche guaio, come accadde in occasione della pubblicazione, nel 1994, di “Dagli ebrei la salvezza” di Léon Bloy, testo fortemente antisemita. Ma la filosofia di Adelphi, di separare la scrittura dalle ideologie impose la pubblicazione del testo contro tutto e contro tutti.

Adelphi non è cambiata, se non negli assetti societari e il pittogramma cinese della luna nuova che accompagna da anni le mie scelte, non mi ha mai deluso…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Adelphi: le origini di una casa editrice (1938-1994)

Scrivere del volume di Anna Ferrando, “Adelphi” (Carrocci Editore) è facile, così come è altrettanto facile leggere il sostanzioso volume, ma naturalmente dipende molto da chi legge e da cosa ha rappresentato la casa editrice Adelphi nella sua vita. Se siete tra quelli che per motivi generazionali o esistenziali hanno scelto di riempirsi la casa di volumi Adelphi, potete tranquillamente continuare a leggere, se invece, al contrario, qualche volume Adelphi vi è capitato per caso tra le mani, allora questa lettura (del mio commento e del libro stesso), potrebbe essere noiosa e superflua.

Adelphi nasce nel 1938, in un’Italia umiliata dalle leggi razziali e dalle persecuzioni antisemite, per merito delle menti vulcaniche di Alberto Zevi, Luciano Foà, Bobi Bazlen, Claudio Rugafiori che avevano un sogno del cuore, ovvero il proposito di far uscire l’editoria, o almeno una parte di essa, dall’eurocentrismo, dalla cultura filosofica per attingere alla scienza, alle religioni e alle tradizioni orientali, al buddhismo, all’islamismo, alla psicanalisi e, soprattutto alla grande cultura Mitteleuropea. Il taglio, fin dai difficili anni iniziali, era chiaramente antistoricista, a tutto vantaggio della ricerca del “libro unico” come si ostinava a chiamarlo Bobi Bazlen. È paradossale che il competitor ideale della nascente Adelphi fu subito Einaudi. La casa editrice torinese era infatti agli antipodi delle idealità che covavano nel cuore degli “adelphi”. Einaudi, in quegli anni, fu quasi completamente organica ad un progetto politico di cambiamento della società. Il paradosso, a mio modo di vedere, è che nei decenni successivi, a partire dal 1970 almeno, i lettori di Einaudi e quelli di Adelphi furono assolutamente sovrapponibili. Eppure “l’impolitico” era certamente uno dei fili conduttori di tutto il catalogo Adelphi (non è certo un caso che “Considerazioni di un impolitico” di Thomas Mann, entrò nel catalogo nel 1997).

Ma Adelphi cominciò da Nietzsche (con l’opera omnia curata da Giorgio Colli), filosofo impolitico per antonomasia, nonostante l’uso e l’abuso che ne fece la destra del post sessantotto. Adelphi, come ebbe a scrivere un pezzo da novanta del suo catalogo, Elena Croce, figlia di Benedetto Croce, “contribuiva ad aprire gli ancora angusti orizzonti del panorama intellettuale italiano” che dal suo punto di vista era troppo impregnato di ideologia per poter scoprire dell’altro. E così, sulla scorta delle ricerca del “libro unico”, il catalogo di Adelphi, tra difficoltà economiche e battaglie ideali anche all’interno della redazione, è andato arricchendosi di fiori preziosi. E qui, tutti noi, quelli di cui sopra, possiamo sbirciare tra gli scaffali delle nostre biblioteche e scorgervi le copertine color pastello di Leonardo Sciascia, Guido Ceronetti, Karen Blixen, Ingebor Bachman, Fleur Jaeggy, Erik Satie, Douglas R. Hofstadtrer, Emanuele Severino, Hilary Putnam, Vladimir Nabokov, Giuseppe Pontiggia, Paul Velery, Elias Canetti, Joseph Roth, Alberto Arbasino, Thomas Bernhard, Arthur Schnitzler, Franz Werfel, Adolf Loos, Ludwig Wittgenstein, Katherine Mansfield, George Simenon, Massimo Cacciari, citati volutamente un po’ a caso, ma in modo che ognuno di noi possa aggiungerci i propri.

Voglio solo ricordare qui, la pubblicazione de “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera nel 1985 che divenne non tanto un caso letterario, ma addirittura un fatto di costume. Quando a dirigere Adelphi arrivò Roberto Calasso, la ricerca del “libro unico” divenne la sicura bussola che ancora guida gli esploratori adelphici. Calasso, divenne anche uno degli autori più apprezzati e affascinanti della casa editrice, già dai tempi del colossale “La rovina di Kasch”, opera assolutamente nuova come concezione e ampiezza storico-filosofica.

Questa esasperata ricerca del “libro unico” portò ad Adelphi anche qualche guaio, come accadde in occasione della pubblicazione, nel 1994, di “Dagli ebrei la salvezza” di Léon Bloy, testo fortemente antisemita. Ma la filosofia di Adelphi, di separare la scrittura dalle ideologie impose la pubblicazione del testo contro tutto e contro tutti.

Adelphi non è cambiata, se non negli assetti societari e il pittogramma cinese della luna nuova che accompagna da anni le mie scelte, non mi ha mai deluso…

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.