Air. La storia del grande salto

«La moda non vende “oggetti” o “cose”, la moda vende “segni”…». Questo è ciò che affermava Roland Barthes in un libro di molti anni fa che si intitolava “Il sistema della moda”. Non si può non partire da questo assunto per comprendere appieno la moda e, di conseguenza, anche questo film.

Occorre tuttavia fare anche un altro piccolo sforzo e cioè cercare di credere nella cosiddetta “logica del mercato”anzi, per meglio dire, credere che il mercato abbia una logica. Forti di queste corroboranti teorie, possiamo goderci questo bel film di Ben Affleck.  Siamo nel 1984 e Michael Jordan, giovane promessa della NBA americana, è alle prese con una disputa tra Converse, Adidas e Nike che si contendono, prestigiosi “testimonial” per il mercato delle scarpe da basket. Per dir la verità, visto la giovane età del giocatore, le tre grandi aziende cercano di conquistare il favore della madre dell’atleta, vera manager di Jordan. A condurre le trattative per la Nike è Sonny Vaccaro (un imbolsito Matt Dammon) talent scout ,inviato dalla Nike stessa a scoprire nuovi talenti nei College statunitensi, per conto di Phil Knight (interpretato dallo stesso Ben Affleck), proprietario della Nike.

Il procuratore di Jordan, uomo con pochissimi scrupoli, cercherà di mettersi di traverso, ma è la madre di Jordan il punto di equilibrio di tutta la vicenda, pronta a puntare tutto sull’aspetto umano, pur conoscendo alla perfezione le regole spietate del mercato, tanto da strappare alla Nike, oltre un lussuoso ingaggio, anche una percentuale sulle vendite. «Una scarpa è solo una scarpa fino a che mio figlio non la indossa», dice con tono profetico la mamma di Jordan e in fondo lo dice a ragion veduta, proprio in considerazione della riflessione di Roland Barthes che di segni se ne intendeva. Il film è ben fatto, i caratteri dei protagonisti sono ben definiti, l’ambientazione (in massima parte la sede della Nike a Beaverton in Oregon), essenziale ed efficace; nessuna concessione allo spettacolo (solo una ripresa di un magico tiro a canestro del cestista). Insomma un film che si guarda con piacere, ma che dovrebbe anche far riflettere sulla coercizione psicologica che i meccanismi del mercato riescono a produrre sugli individui e sulle masse.

Certo che se il povero Pitocrito (o chi per lui) avesse immaginato che la vittoria conseguita nell’isola di Samotracia sarebbe stata ricordata solo per un paio di scarpe, non si darebbe pace. Forse una percentuale delle vendite spetterebbe anche a lui…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Occorre tuttavia fare anche un altro piccolo sforzo e cioè cercare di credere nella cosiddetta “logica del mercato”anzi, per meglio dire, credere che il mercato abbia una logica. Forti di queste corroboranti teorie, possiamo goderci questo bel film di Ben Affleck.  Siamo nel 1984 e Michael Jordan, giovane promessa della NBA americana, è alle prese con una disputa tra Converse, Adidas e Nike che si contendono, prestigiosi “testimonial” per il mercato delle scarpe da basket. Per dir la verità, visto la giovane età del giocatore, le tre grandi aziende cercano di conquistare il favore della madre dell’atleta, vera manager di Jordan. A condurre le trattative per la Nike è Sonny Vaccaro (un imbolsito Matt Dammon) talent scout ,inviato dalla Nike stessa a scoprire nuovi talenti nei College statunitensi, per conto di Phil Knight (interpretato dallo stesso Ben Affleck), proprietario della Nike.

Il procuratore di Jordan, uomo con pochissimi scrupoli, cercherà di mettersi di traverso, ma è la madre di Jordan il punto di equilibrio di tutta la vicenda, pronta a puntare tutto sull’aspetto umano, pur conoscendo alla perfezione le regole spietate del mercato, tanto da strappare alla Nike, oltre un lussuoso ingaggio, anche una percentuale sulle vendite. «Una scarpa è solo una scarpa fino a che mio figlio non la indossa», dice con tono profetico la mamma di Jordan e in fondo lo dice a ragion veduta, proprio in considerazione della riflessione di Roland Barthes che di segni se ne intendeva. Il film è ben fatto, i caratteri dei protagonisti sono ben definiti, l’ambientazione (in massima parte la sede della Nike a Beaverton in Oregon), essenziale ed efficace; nessuna concessione allo spettacolo (solo una ripresa di un magico tiro a canestro del cestista). Insomma un film che si guarda con piacere, ma che dovrebbe anche far riflettere sulla coercizione psicologica che i meccanismi del mercato riescono a produrre sugli individui e sulle masse.

Certo che se il povero Pitocrito (o chi per lui) avesse immaginato che la vittoria conseguita nell’isola di Samotracia sarebbe stata ricordata solo per un paio di scarpe, non si darebbe pace. Forse una percentuale delle vendite spetterebbe anche a lui…

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