Anatomia di un suicidio

Il nuovo talento della drammaturgia britannica si chiama Alice Birch, ha trentacinque anni ed è l’autrice della bellissima “Anatomia di un suicidio”, (tradotto in italiano da Margherita Mauro per il Saggiatore), pièce teatrale di tre ore filate in scena al Piccolo-Teatro Grassi di Milano, fino al 19 marzo, una co-produzione del Piccolo Teatro e “Casadargilla” per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni. Nonna, mamma e nipote legate dal filo di un male di vivere profondo e le loro vicende si dipanano sincronicamente sulla scena pur se vissute in tempi diversi: gli anni Settanta per la nonna, il Duemila per la figlia e il Duemilatrentacinque per la nipote. Una trovata drammaturgicamente geniale e una narrazione scarna, fatta di dialoghi o monologhi che tengono le protagoniste sospese sull’abisso, ma senza mai lasciarle precipitare. Le tre donne vissute in anni diversi, sono indubbiamente legate da una pulsione verso la morte e da una incapacità di vivere i grandi temi della vita, come l’amicizia, l’amore, la maternità, la nostalgia, il ricordo, senza farsi inghiottire completamente da quel cono d’ombra che alberga in ogni essere umano. Le tre donne, e il loro “ennui”, se non proprio la loro depressione, (e in questo sta la genialità della scrittura della Birch), sono coniugati con una sorta di “Zeitgeist”: se la nonna Carol, accanita fumatrice, vive una solitudine e una incomunicabilità tutta da anni Settanta, la figlia Anna, annega nella droga l’incapacità relazionale di inizio millennio, mentre la nipote Bonnie, che vive o per meglio dire “vivrà” in un futuro prossimo venturo, dopo relazioni lesbiche prive di convinzione, sceglierà la via di fuga della sterilità volontaria per urlare la sua angoscia verso il mondo.

Le parole e le espressioni di questa angoscia, fondanti il dramma stesso, si ripetono, anzi “si tramandano” da nonna a figlia e a nipote, con rimandi veicolati dalla forza insopprimibile della memoria e dei luoghi, anche in senso inverso dalla nipote alla nonna. Vale senz’altro la pena spendere qualche parola, sulle grandi capacità degli attori in scena (ben dodici in scena, qualche volta contemporaneamente), di recitare con un grande equilibrio che permette una simultaneità, senza che questa diventi sovrapposizione. Talentuose senza egocentrismi le recitazioni delle tre protagoniste Tania Garribba, Petra Valentini e Federica Rosellini. Ultima nota di merito alla statica scena di Marco Rossi, un po’ “tedesca-off-anni Settanta”, che garantisce un ambiente neutro per il passato, il presente e il futuro. Grande merito al Piccolo Teatro di Milano, per il coraggio di portare in scena testi nuovi della drammaturgia contemporanea.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Il nuovo talento della drammaturgia britannica si chiama Alice Birch, ha trentacinque anni ed è l’autrice della bellissima “Anatomia di un suicidio”, (tradotto in italiano da Margherita Mauro per il Saggiatore), pièce teatrale di tre ore filate in scena al Piccolo-Teatro Grassi di Milano, fino al 19 marzo, una co-produzione del Piccolo Teatro e “Casadargilla” per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni. Nonna, mamma e nipote legate dal filo di un male di vivere profondo e le loro vicende si dipanano sincronicamente sulla scena pur se vissute in tempi diversi: gli anni Settanta per la nonna, il Duemila per la figlia e il Duemilatrentacinque per la nipote. Una trovata drammaturgicamente geniale e una narrazione scarna, fatta di dialoghi o monologhi che tengono le protagoniste sospese sull’abisso, ma senza mai lasciarle precipitare. Le tre donne vissute in anni diversi, sono indubbiamente legate da una pulsione verso la morte e da una incapacità di vivere i grandi temi della vita, come l’amicizia, l’amore, la maternità, la nostalgia, il ricordo, senza farsi inghiottire completamente da quel cono d’ombra che alberga in ogni essere umano. Le tre donne, e il loro “ennui”, se non proprio la loro depressione, (e in questo sta la genialità della scrittura della Birch), sono coniugati con una sorta di “Zeitgeist”: se la nonna Carol, accanita fumatrice, vive una solitudine e una incomunicabilità tutta da anni Settanta, la figlia Anna, annega nella droga l’incapacità relazionale di inizio millennio, mentre la nipote Bonnie, che vive o per meglio dire “vivrà” in un futuro prossimo venturo, dopo relazioni lesbiche prive di convinzione, sceglierà la via di fuga della sterilità volontaria per urlare la sua angoscia verso il mondo.

Le parole e le espressioni di questa angoscia, fondanti il dramma stesso, si ripetono, anzi “si tramandano” da nonna a figlia e a nipote, con rimandi veicolati dalla forza insopprimibile della memoria e dei luoghi, anche in senso inverso dalla nipote alla nonna. Vale senz’altro la pena spendere qualche parola, sulle grandi capacità degli attori in scena (ben dodici in scena, qualche volta contemporaneamente), di recitare con un grande equilibrio che permette una simultaneità, senza che questa diventi sovrapposizione. Talentuose senza egocentrismi le recitazioni delle tre protagoniste Tania Garribba, Petra Valentini e Federica Rosellini. Ultima nota di merito alla statica scena di Marco Rossi, un po’ “tedesca-off-anni Settanta”, che garantisce un ambiente neutro per il passato, il presente e il futuro. Grande merito al Piccolo Teatro di Milano, per il coraggio di portare in scena testi nuovi della drammaturgia contemporanea.

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