Molti anni fa, l’editore Allemandi pubblicò un poderoso volume dal titolo “Le isole del tesoro”, autori dell’opera erano Umberto Eco, Renzo Piano, Federico Zeri e Augusto Graziani. Le isole a cui allude il volume sono le decine di migliaia (forse centinaia di migliaia) di tesori artistici e culturali che l’Italia nasconde (spesso) e svela (qualche volta).E allora comincerei proprio da qui per parlare dell’opera incisa di Andrea Granchi. L’isola del tesoro di cui sono venuto a conoscenza occupandomi della mostra di cui sto per parlare, è un museo: il Museo della carta Magnani di Pescia. Solo in Italia, o soprattutto in Italia si possono fare scoperte del genere. La carta in questione è un materiale particolarmente adatto all’incisione. Questa carta è servita a nobili scopi, che non sto qui ad elencare, ma ricordo che la la carta filigranata Magnani è stata utilizzata per il “Bhagavata Purana” un manoscritto miniato indiano realizzato nel 1840 ora al Museum of Art di San Diego, così come per il “Qajar Album”, disegni e stampe raccolte sotto la dinastia Qajar nell’Iran dei secoli XVIII-XX ( Harvard Art Museums) e anche nella scrittura, come nella corrispondenza, dei fratelli Shelley (alla Bodleian Library), nei disegni di Pablo Picasso (Musée Picasso, Paris).
Ma veniamo al dunque: nel 2024 Andrea Granchi ha donato a questo museo le sue incisioni, tratte da “La finestra di fronte”, da “Il Miracolo della Santa Cinepresa” e il “ciclo” completo di Pratolina. Attualmente le incisioni di Andrea Granchi sono esposte in una grande mostra che si intitola “Andrea Granchi. Memorie incise. Opere grafiche 1966-2023”, presso la Galleria Il Bisonte di Firenze (aperta fino al prossimo 6 settembre).
Ampio e necessario preambolo per raccontare, a chi mi legge, soprattutto al lettore novarese, che Andrea Granchi è la persona a cui devo tutto o quasi tutto della mia passione per l’arte moderna e per l’arte in generale, grazie alle sue appassionate lezioni al liceo artistico statale di Novara negli anni Settanta.Non posso che essere rimasto non dico molto contento, ma addirittura allibito, quando qualche settimana fa ho ricevuto, oltre che un graditissimo invito per il vernissage (che sono certo Andrea preferisce chiamare inaugurazione), anche l’invito a scrivere qualcosa su questa mostra e sulla sua opera. Forse non avrei dovuto accettare per il semplice motivo che non potrò che scriverne bene. Ma è qualcosa che faccio con estremo piacere, poiché conosco la sua opera e serbo di lui un ricordo incancellabile di quegli anni Settanta che fu epoca di grandi entusiasmi, di ricerca e di sperimentazione artistica e, perché no, anche di grandi lotte ideali e politiche. In realtà la passione di Andrea Granchi per l’incisione risale a qualche decennio prima, ovvero al periodo 1961-1965 quando frequentava il liceo artistico a Firenze. E qui occorre dire che Andrea ha sempre respirato l’aria della “bottega fiorentina”, come lui stesso ama ricordare, essendo la sua “antica famiglia di artieri che ebbero botteghe in Borgognissanti in via Montebello e in Borgo San Jacopo”. Il papà di Andrea inoltre fu una autorità nel campo del restauro presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze; insomma una storia che sembra un’invenzione di una “Firenze profonda” e spesso da noi mortali solo ipotizzata e immaginata. Tutto vero invece.
In quel mondo frammisto di antico e moderno arrivò la grande passione per un artista che fu capitale nella sua formazione, quel Giorgio Morandi le cui incisioni furono oggetto di analisi attenta e profonda anche per noi studenti degli anni Settanta al liceo artistico di Novara. In Andrea Granchi convivono da sempre due anime una legata alla profonda tradizione artistico-artigianale italiana che sembra provenire per via diretta dall’ambiente della sua infanzia e della sua giovinezza (e come già scritto non si tratta del solito “modo di dire”) e, l’altra, dalle sconvolgenti novità delle “Avanguardie artistiche del Novecento” (per citare il titolo del testo di Mario De Micheli) che so che anche lui ha amato molto. In fondo non poteva che essere così. Le sue incisioni non sono quieti lavori artistici, ma sono esplosioni di senso reali o surreali, mappe visuali del sogno. Va ricordato, e non mi sembra di secondaria importanza, che Andrea Granchi è un grande cultore, oltre che regista, di numerosi film del cosiddetto cinema d’artista, molto apprezzato negli anni Settanta e che attraverso video installazioni e filmakers, ancora oggi rappresenta una sostanziosa fetta delle produzioni artistiche contemporanee. Vorrei anche ricordare che Andrea Granchi, nel 1979, fu curatore di una rassegna organizzata a Parigi dal Comune di Firenze e dalla Cinémathèque Française intitolata appunto “Cinema d’artista e cinema sperimentale in Italia 1960/1978” con proiezioni al Palais de Chaillot e al Centre Pompidou. Questa passione per il cinema sperimentale e la sua formazione artistica/artigianale si possono percepire immediatamente anche nelle opere incise: come non vederla per esempio nella serigrafia a tre colori intitolata “Irrimediabilmente solo” del 1973? Come non pensare a Vertov (ma solo per fare un esempio), nell’acqua tinta “Pater dominatori dei contrari”. Immagini simboliche e incubi, scene oniriche che sembrano derivare dalla grande scuola di Alfred Kubin ma che inglobano quella grande fascinazione per il barocco che Granchi sentiva, e sente, come onnipresente nella tradizione dell’arte italiana.
Ma c’è di più in lui, oltre al simbolismo e ad elementi surrealisti, c’è anche un riferimento a quel mondo dipinto e scolpito dagli artisti della Transavanguardia che proprio nella metà degli anni Settanta andava affermandosi sulla scena dell’arte contemporanea, forse l’ultima corrente artistica italiana che ha varcato i confini nazionali.
Guardare “La nascita delle idee minori” del 2000, suggerisce alla nostra “memoria estetica” le opere di Mimmo Paladino o Francesco Clemente. Naturalmente, ognuno di noi, può trovare riferimenti diversi, ma l’opera di Andrea Granchi, difficilmente può lasciare indifferenti. “L’uomo che insegue l’ombra” una litografia a 5 colori del 1983 (“alla maniera nera”) per restare alle grafiche, è un’opera illuminante di quella sorta di “realismo magico” (prendendo a prestito la terminologia bontempelliana) che gioca un ruolo fondamentale nei soggetti e nelle forme delle opere di Andrea Granchi: un cavaliere uscito dal mare sembra inseguire con foga la sua ombra, in un paesaggio tropicale rischiarato da una luce lunare e vagamente apocalittica. Tante le controsignificanze che nutrono l’opera di ironia, drammaticità, mistero. Della stessa natura “L’inseguitore di giganti”, litografia tinta del 1989 dove un viandante misterioso (nel quale non mi spiace identificare con lo stesso artista) percorre la dorsale di una collina che altro non è che il gigantesco volto di un gigante. Quante volte noi stessi bambini non abbiamo fantasticato sulla anatomia umana trasfigurandola in un paesaggio immaginario?
Mi sia consentito infine un ricordo molto personale, quello dell’artista nella veste di mio insegnante al liceo artistico di Novara alla metà degli anni Settanta. Andrea Granchi è la persona che forse più di tanti altri, ha saputo instillare in me l’amore per l’arte. Lo ha fatto con dedizione totale verso quella classe formata da scalmanati “ragazzi degli anni Settanta”. È un debito di riconoscenza che ho con lui e con altri docenti di quegli anni irripetibili. Ora, anche se l’ho fatto con grande piacere, mi sembra davvero stranissimo che dovessi essere io a scrivere di lui, io che ero suo “discente” e inconsciamente continuo ad esserlo…
Una risposta
Mario Grella si è confermato, negli anni, come uno dei più attenti e raffinati commentatori, e talvolta addirittura scopritori, di eventi artistici di rilievo. Questo oggi, in un mondo regolato in assoluta prevalenza da regole economiche o di “scambio”, si impone come una assoluta rarità ed eccezione. La passione che da sempre lo contraddistingue ha avuto ragione dell’appiattimento commerciale in cui anche i cosiddetti “professionisti” dell’informazione o della critica d’arte, per lo più sono costretti ad adeguarsi. Avere, qua e là in Italia, una voce “libera” come la sua fa bene al cuore e allo spirito e soprattutto permette di entrare, senza “mediazioni” o “compromessi di alcun genere, nel senso profondo del lavoro che egli via via ci presenta.